Sagi

Avventura/Fantasy - NinoxOC - giallo

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  1. hika86
     
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    Nota al titolo: Sagi (lsi legge "saghi") è la parola giapponese per indicare l'airone giapponese (Gorsachius goisagi) che è una specie di airone che vive proprio lì

    Tadaaaaa *O* dopo aver postato il penultimo capitolo di Akai ieri... rieccomi!

    Allora, sto per fare una cagata... me lo sento.
    Quelle che hanno già letto qualcosa di mio sanno che evito il Nino-protagonista delle ff perchè non riesco a scrivere molto su di lui. Lo adoro e lo amo, ma per me lui più degli altri quattro rimane un mostro sacro che non riesco a comprendere. Non so se Nino è veramente come si mostra ai nostri occhi, ma che sia così o no per me rimane un personaggio criptico che sento come mio completo opposto.
    E questo l'ho detto per pararmi le chiappe: se il Nino che leggerete qui farà cagare, non è che sia del tutto colpa mia, io l'impegno ce l'ho messo!
    Ma se è tanto complesso, perchè fare una long fic proprio con Nino?? A me piacciono le sfide °_° punto.
    Dopo il piccolo tentativo di Kotoba yori -in cui ho sviato il mio problema di incomprensione presentando un Nino piccino picciò diverso da ora- ho trovato un altro modo di sviare il problema XD ahahahahah! Sono scaltra come una faina io!
    Non voglio dire altro se non che ora come ora non riesco a capire quanto verrà lunga perchè sto ancora pianificando del tutto l'intreccio. Comunque non ho intenzione di fare una Akai-bis come lunghezza. Sono anche insicura sul rating, ma per ora lo metto giallo che non si sa mai.
    Ah, sì, c'è un NinoxOC, ma come avrete notato dal genere della ff... la parte romantica non è proprio prevalente, ma c'è! Perchè sono una trottolina amorosa dududù dadadà (→dovrei essere a letto in questo momento, capitemi)

    Sagi


    Prologo: lettere dal passato
    Il cellulare cominciò a suonare. Rimase nell'ingresso di casa e lo cercò in tutte le tasche. «Pronto?» domandò
    «Pronto! Sei arrivato? E' lì?»
    «Sono arrivato ora, mi ha dato le chiavi il custode» spiegò togliendosi le scarpe e lasciandole nell'ingresso senza sistemarle, ma cominciando subito a gironzolare per le camere. «Mi sa che qui non c'è»
    «Aspetta, ho un avviso di chiamata» e mise in attesa. «Pronto?»
    «Sono io, hai sentito Aiba chan?»
    «Sì» rispose con un sospiro. «E' arrivato ora, ma la casa è deserta»
    «Da sua madre non c'è»
    «Non le avrai detto che non lo troviamo spero?» fece mettendosi in allarme
    «Ma con chi credi di parlare? No, ho telefonato chiedendole di ricordargli di un lavoro per questo pomeriggio quando se ne va da lì. Allora mi ha detto che non c'era. Mi sono scusato per il disturbo, sapevo che lui voleva passare a trovarla oggi, ma alla fine magari non aveva avuto tempo»
    «Sei proprio intelligente Sho kun. Un attimo che ho Aiba chan sull'altra linea» e anche Sho venne messo in attesa. «Aiba chan!»
    «Oh, eccoti. Intanto mi ha chiamato il Riida»
    «Che dice?» domandò con ansia
    «Niente neanche agli studi» rispose l'altro con un sospiro. «Che facciamo ora Matsujun?»
    «Senti, veniamo tutti lì e ne discutiamo»
    «Ok, avviso il Riida»
    «E io Sho. A dopo»
    «A dopo » ed entrambi passarono all'altra linea.
    Un paio d'ore dopo tutti raggiunsero Masaki a casa di Nino. Il padrone dell'appartamento era sparito dal pomeriggio del giorno precedente.
    L'ultima volta era stato visto sul set, poi non se n'era più saputo niente. Gli addetti ai lavori, sgomenti, avevano pensato fosse successo qualcosa, ma il manager non aveva saputo come rispondere perchè nemmeno lui aveva idea di dove fosse sparito Ninomiya: aveva detto "vado a prepararmi", si era avviato ai camerini e nessuno l'aveva più visto. Sul momento, il manager si era inventato un malore grave e improvviso, poi aveva chiamato i membri pensando in uno scherzo di cattivo gusto del ragazzo: certo, non era da lui comportarsi in quel modo sul lavoro, ma Ninomiya era imprevedibile. In quel caso però nessuno degli Arashi ne sapeva niente.
    Lo cercavano dalla sera del giorno prima quindi. Non era nei suoi posti preferiti, non era a casa di colleghi, di amici o di conoscenti, non era ovviamente a casa di nessuno di loro e nemmeno a casa della madre. Avevano controllato sui set dei programmi, per le sedi dei vari studi televisivi, avevano fatto controllare alla Johnny's Entertainment e Aiba aveva setacciato palmo a palmo tutto il vicinato. Ninomiya Kazunari si era volatilizzato.
    I quattro compagni si radunarono nel suo appartamento, un po' disordinato e polveroso come sempre. Cibo surgelato in frigo, nessun piatto da lavare.
    «Che cosa facciamo? Domani dobbiamo girare VSArashi, che scusa potremo mai inventarci per la sua assenza?» chiese Sho in tono lamentoso, mentre si lasciava andare sul divano in sala.
    Jun era seduto a terra, intorno al tavolino basso davanti al divano, e rimuginava fissando la pila di riviste di videogiochi in un angolo del ripiano.
    «Non possiamo inventarci un malessere, spaventeremmo tutti per nulla e non sapremmo come spiegare al personale dell'ospedale perchè dovrebbe mentire ad eventuali giornalisti» rifletté Aiba raggomitolandosi anche lui sul divano, con aria afflitta
    «Suonano alla porta» fece notare Satoshi e gli altri gli fecero segno di andare ad aprire.
    Jun fece un sospiro e si passò le mani sugli occhi. «Una persona non può sparire così! Anzi, una persona può, è Ninomiya Kazunari degli Arashi che non può. E' inconcepibile che nessuno, e sottolineo nessuno, lo abbia più visto da un certo momento in avanti» spiegò piccato
    «Il Riida è andato sul set e ha chiesto a tutti, ma pare proprio sparito nel nulla» spiegò Masaki
    «C'è una cosa per noi» annunciò Ohno tornando in sala con un grosso baule tra le braccia.
    Tutti lo guardarono stupiti. «Ma chi era alla porta?» chiese Sho fissando l'oggetto che veniva posato sul tavolino. «Questo affare sembra antico»
    «Lo è. Sapete la famiglia che ha concesso di usare nelle riprese al dettaglio katana, wakizashi e altre spade¹ della loro collezione?» chiese Ohno passando con delicatezza il dito sul bordo del baule. «Questo è un oggetto che si tramandano da generazioni. Chi l'ha portato ha detto di fare attenzione perchè è un oggetto datato 1500».
    Tutti si zittirono e fissarono il "pacco" appena arrivato con gli occhi sgranati. «E perché dovrebbero far avere a Nino un oggetto d'antiquariato? Se è autentico vale una fortuna!» esclamò Aiba
    «Il tizio che l'ha portato ha detto che è per noi, non per Nino» rispose ancora Satoshi, dopodiché capovolse la scatola per mostrare loro il fondo.
    Il baule era nero decorato con un motivo di kanji molto fitto, ma sotto era solo laccato scuro e in un quadrato intagliato al centro c'erano dei caratteri scritti più piccoli. C'era scritto l'indirizzo di casa di Nino e sotto diceva:

    Ad Aiba Masaki, Ohno Satoshi, Matsumoto Jun e Sakurai Sho
    ventunesimo anno dell'era Heisei, quarto mese, dodicesimo giorno²
    La chiave è nel giorno in cui abbiamo cantato insieme per la prima volta.


    «Che significa?» chiese Jun incupito. «Prima Nino sparisce e poi arrivano a casa sua bauli secolari indirizzati a noi quattro? E' troppo elaborato per pensare che sia solo uno scherzo»
    «Allora non lo è» sentenziò Sho mentre girava il baule rimettendolo dritto. «Guarda l'apertura: somiglia ai lucchetti a combinazione delle nostre moderne valigie» disse guardando una serie di anelli numerati che sporgevano dal legno
    «Sono otto cifre» osservò Aiba
    «Nel 1500 non si usava ancora il calendario occidentale» fece notare Satoshi
    «E' chiaro che però qualcuno doveva saperne qualcosa, perchè la "chiave" è una data di otto cifre con anno, mese e giorno» fece Jun stizzito. «Ma è una data che nel 1500 non potevano prevedere»
    «Nessuno a parte noi cinque può saperla» ribattè Aiba. «Solo noi sappiamo quando abbiamo inciso insieme le parti del primo singolo»
    «Qualcuno alla JE sì ed il loro è uno scherzo di pessimo gusto» insistette Jun
    «Si è aperto» annunciò Ohno che nel frattempo aveva girato gli anelli per formare la data. Quando l'aveva inserita aveva sentito che la chiusura sul coperchio si era fatta meno dura e infatti bastò un po' di forza per contrastare i cardini impolverati e ammuffiti.
    Chiunque stesse facendo loro uno scherzo non l'aveva pensato molto divertente: il baule era pieno di carta, rotoli per la precisione. Ognuno era tenuto chiuso da un semplice nastro con sopra segnato un numero.
    «Leggiamo il primo?» domandò Masaki
    «E se fossero scritti in giapponese antico? Io mica so leggerlo» scosse il capo Jun
    «Non guardate me» aggiunse Ohno
    «Ho capito, cominciamo dal numero uno, direi» sospirò Sho allungando la mano prendendo il primo rotolo.
    Rispetto ad altri era un foglietto molto piccolo. «E' giapponese normale» annunciò dando un'occhiata rapida alle scritte
    «E' la scrittura di Nino!» esclamò Aiba
    «Allora è sicuramente una presa in giro» borbottò Jun incrociando le braccia
    «Non avevamo appena concluso che è troppo elaborata per essere una qualsivoglia candid-camera?» sospirò Sho. «Allora leggo».
    Questo il testo riportato sul primo rotolo:

    Agli Arashi
    Prima che continuiate a leggere ho un favore da chiedervi: se sono lì con voi chiudete tutto e distruggete questo baule e quello che contiene. Vi prego di non farvi domande, prendetelo come un mio scherzo e lasciate correre, ma non leggete oltre, per nessun motivo, e soprattutto non fatene sapere niente a me.
    Se invece non sapete dove sono, il favore è un altro: smettete di cercarmi, leggete questi fogli e se mai ci rivedremo, non raccontatemi mai nulla di ciò che state per leggere.


    Nessuno ebbe niente da dire, anche perchè erano tutti abbastanza confusi, così Jun pescò il foglio con il numero due, lo srotolò e lo lesse ad alta voce:

    Se state leggendo questo scritto si è avverata l'ipotesi peggiore.
    Nel momento in cui vi si scrivo è il pomeriggio del primo giorno del quinto mese del dodicesimo anno dell'era Eishō.³ Non so a cosa corrisponda con esattezza nel calendario cristiano, suppongo che avrei dovuto impararmi le tabelle degli imperatori quando andavo a scuola, ma dovrebbe essere la prima metà del 1500. E' maggio quindi, ma sono qui da diversi mesi ed io non so come funzioni lo scherzo del destino che mi ha fatto passare un'esperienza simile: quando, tra poche ore, proverò a riappropriarmi della spada riuscirò a tornare da voi? E quanto tempo sarà passato? Poche ore? Pochi giorni? O magari no... ho i brividi.
    In questi mesi, prima per la gamba rotta poi per abitudine, ho tenuto un diario di tutto ciò che accadeva. Accatastavo i fogli nella mia camera, raccolti in un baule qualsiasi. Quando ho avuto l'idea impossibile di farveli avere l'ho fatto modificare: ci sono volute due settimane di progettazione e discussioni animate con il fabbro per fargli capire come volevo che venisse chiuso questo affare! Continuava ad insistere che usare una chiave fosse più semplice, ma come ce la facevo arrivare una chiave nel ventunesimo secolo? Già è tanto se la famiglia Morikawa sopravvivrà per qualche centinaio d'anni, la possibilità che riescano a tramandarsi questa scatola senza valore è minima, figurarsi la chiave! Ma niente, quello zuccone del fabbro non la voleva capire. Alla fine ho vinto io comunque.
    Chiudo qui i miei ricordi di questo periodo. La mia richiesta precedente era dovuta al fatto che, se sono lì con voi è meglio che nessuno di noi sappia nulla (chissà, paradossi temporali e bestialità simili da racconto di fantascienza), ma se sono sparito voglio che sappiate dove sono, cosa sto facendo e che tornerò. Tornerò ad ogni costo.

    Nino



    ¹ Katana e wakizashi fanno parte del daishō, ossia il set di due spade che era concesso portare agli uomini della classe dei samurai. Queste due armi hanno costituito il daishō solo dal 17esimo secolo in poi, mentre prima su usavano tachi (spada più lunga e ricurva rispetto alla katakana) e tantō (tipo coltello di 30 cm)
    ² La data è giapponese e indicata con il calendario delle ere, scadite dal succedersi degli imperatori. Tradotto, è il 12 Aprile 2010
    ³ Dodicesimo anno (1515) dell'era Eishou (1504-1520)


    CAPITOLI
    1. Sventurate cadute LEGGI
    2. Il Giappone di ieri, il Giappone di domani LEGGI
    3. Morikawa Kazunari LEGGI
    4. pantsu-sha LEGGI
    5. Scontro con la realtà LEGGI

    Edited by hika86 - 21/8/2013, 21:36
     
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  2. AlArashi
     
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    A ME PIACE, TANTO. Mi sa proprio da Nino, un'avventura che solo lui potrebbe vivere, Voglio proprio vedere come te la caverai ma sarai sicuramente perfetta anche con questo tema <3
    Punto fine a capo
     
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  3. kyonkichi
     
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    Sai perfettamente che anche solo l'accostare le parole Nino- Zukky- ff è per me una formula maggggica :D
    Non posso fare ciò che vorrei per te mentre scrivi, ma ti seguirò, eccome!
    Sono troppo curiosa di vedere come lo caratterizzerai. E, come ti ho già detto, non aver paura: sarà il TUO Nino, e sarà perfetto quanto quello di chiunque altro. Finchè non lo conosciamo di persona, non possiamo pensare che ci sia una visione più giusta di un'altra.
    So già che lo adorerò :)
     
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  4. ri90italy
     
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    Ok!! tu dì un'altra volta che uscirà una cagata e ti picchio!!! Stai scherzando??? questa storia è una figata, il genere che preferisco!!!
     
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  5. hika86
     
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    Gna ç.ç grazie per le parole (e le minacce ò.O) che mi avete dato.
    Ammetto di essere ancora insicura, ma demoralizzarmi sull'epilogo ha poco senso, quindi perlomeno posso decidermi di ritirarmi da questa sfida dopo aver ricevuto i pomodori del primo capitolo XD Voilà

    Sagi


    1. Sventurate cadute
    Ero di fronte ai tizi peggio vestiti che avessi mai visto. Non che in quel momento fosse la mia primaria preoccupazione, ma le armature che indossavano sembravano prese in un negozio di travestimenti di seconda mano. Quale produzione era tanto scadente da accettare costumi di qualità tanto infima in un film che doveva essere storico e per il quale quindi la scenografia e i vestiti erano importanti?
    «Ho chiesto come ti chiami» mi disse l’uomo. Doveva essere il più alto dei due anche se non potevo esserne certo dal mio punto di vista dato che ero riverso a terra.
    «Cosa?» domandai incredulo. Da quando avevano cominciato a parlarmi quella era l’unica parola che ero riuscito ad articolare.
    «Forse è ritardato» fece il secondo uomo. «Smettiamola di perdere tempo e catturiamolo»
    «Cosa?» chiesi ancora, ed era la terza volta. Ora, vorrei essere chiaro, i due parlavano giapponese con uno strano accento ma li capivo e non ero rincretinito tutto d’un colpo: è solo che ripetevo quella parola senza rendermene conto. Ero sotto shock, non capivo dove fossi, né come ci fossi arrivato: pochi minuti prima gironzolavo per gli studi, avviandomi in tutta tranquillità al mio camerino, poi improvvisamente ero caduto a terra. Non “inciampato”, ma caduto! E anche da un’altezza considerevole, cosa che i miei riflessi non erano stati pronti a gestire così il mio impatto col suolo era avvenuto in maniera del tutto scomposta. Risultato? Dovevo essermi rotto o incrinato qualche osso della gamba destra perché in quel momento mi provocava un dolore lancinante.
    Quindi ero sotto shock e dolorante, e me ne stavo spalmato sulla strada non perché fossi interessato alla consistenza del terriccio, ma proprio perché non riuscivo ad alzarmi dopo la caduta. Premesso questo, sfido chiunque a fare un discorso sensato in una condizione simile.
    «Perché dici che è un ladro? A me sembra solo un po’ tocco» il primo uomo in armatura scosse la testa, data la mia situazione non potevo biasimarlo per ciò che aveva detto
    «Guarda com’è conciato: di certo non è un nobile, né un guerriero, quindi nulla giustifica come mai abbia questa con sè» il secondo raccolse un oggetto da terra sfilandomelo di mano e io non mi ero nemmeno accorto di star stringendo qualcosa tra le dita.
    «E’ una tachi di buona fattura» ammise il primo
    «Direi ottima, deve averla rubata. Catturiamolo»
    «Cosa?» domandai di nuovo con un acuto strozzato. In quel caso però non era una ripetizione, ma una vera domanda: il dolore era a malapena sopportabile, io non mi reggevo in piedi e quei due invece di chiamare un’ambulanza o un medico blateravano della qualità di una spada e di catturarmi? Ero io quello sotto shock, allora perché sembrava proprio che fossero loro a ragionare come se avessero avuto delle scimmie urlatrici al posto del cervello?
    «Forza alzati, le prigioni ti aspettano» ridacchiò il secondo soldato in armatura facendo un passo verso di me: doveva aver capito che se voleva che mi muovessi avrebbe dovuto alzarmi di peso perché io non avrei collaborato.
    «Soldati!» esclamò una voce sottile. «Non avete niente di meglio da fare che tormentare la povera gente?». Un ragazzino dal largo cappello di paglia mi si parò davanti. «La guerra incombe e la gente muore di fame, non dovreste combattere per garantire la pace di queste terre? E invece state qui a discutere se quest’uomo sia un ladro o no? Anche se fosse, la spada è vostra ora. Lasciatelo stare»
    «Non potete biasimare la povera gente se cerca un modo per difendersi da sé, dato che voi non fate il vostro lavoro» disse una voce che si levò dai lati della strada.
    La testa mi girava e stavo sudando parecchio, inoltre avevo il fiatone e se non mi fossi calmato avrei rischiato di andare in iperventilazione. Nel tentativo di scordare il dolore e riprendere una respirazione normale, girai lo sguardo intorno a me e notai una discreta folla accalcatasi probabilmente già prima che il ragazzino intervenisse in mio favore.
    «È così che il vostro signore vuole governare?»
    «Vi preoccupate di chi non ha nemmeno le bacchette per mangiare invece che del nemico che ha coltelli per ucciderci tutti»
    «Abbasso i Tokudaiji!». In pochi attimi scoppiò la rivolta.
    Quando un buon numero di persone si furono messe tra noi e i soldati, il ragazzino si girò verso di me. «Forza straniero, approfittane per andartene» suggerì a bassa voce
    «Non posso» riuscii a dire a denti stretti
    «Ti sei fatto male?» chiese piegandosi a tastarmi la gamba sopra i jeans. «Aggrappati a me avanti» disse passandosi il mio braccio sulla spalla. Si alzò lentamente aiutandomi a rimettermi in piedi così da poter cominciare ad allontanarci.
    Il suo fisico era talmente sottile che in un lampo di lucidità ebbi il buonsenso di aiutarlo spostando un po’ del peso sulla gamba sana per non appoggiarmi solo a lui, ma i primi passi furono difficili: il trambusto alle nostre spalle si faceva sempre più vigoroso e tutto quel rumore mi spaventava, quindi tentai di aumentare l’andatura, ma non feci altro che incespicare nei miei stessi piedi.
    Mentre avanzavamo zoppicanti, durante una delle mie tante perdite d’equilibro mi aggrappai saldamente al ragazzino e involontariamente gli appoggiai una mano sul petto. Fu allora che mi resi conto che in realtà era una donna. Io però non avevo testa per stare a chiedermi come mai si travestisse, né per chiederle scusa, tanto più che lei non sembrò nemmeno farci caso.
    Ad un certo punto la sentii strattonarmi di lato per imboccare una viuzza secondaria e levarci dalla strada principale.
    Avanzammo per un po’ lungo uno stretto passaggio tra alcune case basse, poi da due incroci più avanti comparvero degli uomini che se possibile sembravano ancora più ridicoli dei precedenti: indossavano dei kimono scuri e avevano due spade al fianco, conciati proprio come dei samurai.
    Man mano che si avvicinavano però, la rapidità dei loro movimenti e l’aria minacciosa cancellarono ogni elemento di ridicolo dalla loro figura. Mi sentii come probabilmente deve sentirsi un topolino da laboratorio: certo che la sua sarà una brutta fine e che non c’è nessuna via di fuga dalla sua gabbietta; ero terrorizzato, vulnerabile e non autosufficiente. Però non potevo fare a meno di assecondare i passi della donna che mi aveva aiutato, anche se non avevo alcuna certezza che lei non mi avrebbe cacciato in guai più seri di quelli che avrei incontrato consegnandomi nelle mani dei due soldati in armatura.
    «Rie sama» gli uomini si fermarono a pochi passi e si inchinarono unendo le mani chiuse a pugno davanti al visto
    «Prendetelo. Lo portiamo a casa di mio padre» disse la donna lasciandomi tra le braccia di due del gruppo.
    Non mi piaceva essere sballottato come un sacco di patate e nemmeno mi piacevano quei tipi che avrebbero potuto rigirarmi come un calzino, ma alla fine fui grato di quel cambio: mi costrinsero a passare le braccia sulle loro spalle, mentre entrambi mi afferrarono per la vita e mi sollevarono. La gamba non toccava terra e il mio peso non la schiacciava quindi fu un sollievo.
    La donna si mise a camminare davanti a noi e gli uomini rimanenti si spostarono alle nostre spalle. Senza me a rallentarla, la sconosciuta prese a camminare più velocemente e cominciammo ad attraversare la città, rapidi e silenziosi.
    Svoltammo in vie larghe e in vie strette, alcune erano deserte e altre più popolate. Lanciando qualche occhiata casuale intorno a me, vidi cortili con anatre o cavalli, fuochi da campo accesi nella terra, piccoli giardini curati e altri del tutto incolti. C’erano case in legno ben costruite e altre più sgangherate, alcune cinte da mura, altri solo da steccati. Si alternavano strade sterrate e altre coperte di pietre lisce un po’ sconnesse. L’odore delle cucine si mischiava a quello degli animali e delle feci o col profumo di fiori e di pini. Alcune strade erano silenziose, altre più rumorose. Incrociammo bambini che correvano gridando da un cortile all’altro, signore in kimono intente a parlottare fuori da qualche locale e uomini che vociavano tra loro mentre lavoravano.
    Non c’erano negozi con vetrine, né konbini: sembrava un villaggio di campagna e proprio non capivo come fossi finito lì dal set televisivo!
    Gradualmente le strade diventarono un sentiero e una foresta prese il posto delle case. Il profumo della resina si fece più intenso ed ogni altro rumore scomparve lasciando spazio solo ad un grande silenzio, riempito dallo scricchiolare del legno degli alberi.
    Non capivo quanto tempo fosse passato, forse ore intere o forse pochissimi minuti. Avevo perso la cognizione del tempo, il dolore mi annebbiava i sensi, la gamba aveva ripreso a farmi male più di prima come se la forza di gravità stesse tirando a sé l’osso ed ogni minimo sballottamento dovuto alla corsa non faceva che darmi una fitta dolorosa. Avrei voluto strillare, non me ne importava un fico secco di sembrare un debole, ma avevo la gola in fiamme e talmente secca che forse non sarei riuscito ad emettere alcun suono.
    Ad un certo punto vidi davanti a noi un portale con un enorme cancello in legno, ma quando lo raggiungemmo la donna in testa al gruppo entrò spingendo una porticina laterale più bassa. Dall’altra parte, in un grande spiazzo di terra chiara, sembrava svolgersi un allenamento di kendō: c’erano tantissimi uomini con la loro spada di bambù che si allenavano combattendo gli uni contro gli altri.
    «Rie sama» salutarono alcuni inchinandosi profondamente con i pugni chiusi davanti al viso
    «Rie, cosa ci fai a casa a quest’ora?» un esclamazione si sollevò dal gruppo.
    Mi scaricarono a terra malamente, ma ne fui felice: certo ero tornato alla situazione di partenza, a terra e dolorante, ma almeno non avrei più subito gli scossoni della corsa.
    «Per favore, fratello, non ha un posto dove andare e i guerrieri dei Tokudaiji lo avrebbero imprigionato» sentii la voce della donna insistere e strabuzzai gli occhi. Un primo pensiero lucido mi attraversò la mente: stava cercando di farmi ospitare lì? In una palestra di kendō? La gente sembrava uscita di senno.
    «Ospedale» rantolai e poi tossii per schiarirmi la voce. «Non qui, va bene l’ospedale» spiegai con le lacrime agli occhi: volevo un medico, un’ingessatura e uno stramaledetto letto! Cosa pagavo l’assicurazione sanitaria a fare se poi mi portavano in una palestra di arti marziali quando mi rompevo una gamba?
    «Ma come parla?» domandò un uomo vicino alla donna che mi aveva aiutato. «Che città è questa Ospedale? Non l’ho mai sentita»
    «E’ uno straniero, fratello. Aiutiamolo, non ha nessuno che conosce e che possa aiutarlo ed è lontano da casa» insisteva lei
    «Non possiamo accogliere tutti quelli che attaccano briga coi Tokudaiji, Rie. Non significa che siano per forza nostri amici» scosse il capo l’uomo
    «Ma fratello» fece la donna prima di essere interrotta
    «Fatelo vedere a me».
    Un uomo con una barba brizzolata e un primo accenno di rughe ai lati degli occhi si piegò su di me e mi costrinse a stendermi del tutto per terra. «Sicuramente non è di queste parti, nessuno si veste così qui da noi» osservò prima di tirar fuori un piccolo pugnale. «Perdonami, ma devo vedere la tua gamba» spiegò per rassicurarmi, dato che alla vista della lama avevo tentato di strisciare all’indietro.
    Ero abbastanza certo che non volesse pugnalarmi e infatti non era per quello che avevo cercato di allontanarmi, ma piuttosto perché avevo intuito che volesse rompere i jeans e quei Levi’s costavano una fortuna!
    Però ero sempre un topo in gabbia, quindi non avevo né il modo, né tantomeno la forza di oppormi: ascoltai a malincuore il rumore dello strappo nei pantaloni. Una persona normale penserebbe che è più importante la salute di un paio di jeans, ma… cavoli, erano costosi e non li avevo nemmeno comprati io! Detesto sprecare i buoni regali.
    Senza tante cerimonie e senza nemmeno avvertirmi mi prese la gamba e con un gesto deciso riassestò le ossa. Per qualche secondo non vidi nulla, accecato dal dolore. Forse non riuscii nemmeno ad urlare nonostante avessi aperto le labbra per farlo, o forse emisi qualche suono ma non riuscii ad udirlo. Tutti i muscoli del corpo che si erano contratti per lo spavento e il dolore si rilassarono improvvisamente e mi sentii sul punto di svenire.
    «Qualche bastone e alcune tele» ordinò lo strano medico. «Uniteli insieme e usiamoli per trasportare lo straniero».
    Dopo i primi momenti il mondo tornò ad essere visibile, anche se mi sembrava pieno di chiazze scure e un po’ appannato. Alcuni uomini si erano raggruppati intorno a noi dopo aver interrotto l’allenamento e mi fissavano, qualcuno incuriosito, qualcuno con l’espressione sofferente, come se partecipasse al mio dolore. Perché c’era quella gente intorno a me invece di esserci dottori, chirurghi ed esperti?
    «Padre, lo volete prendere in casa?» domandò il tizio che era contrario alla mia permanenza lì esattamente quanto me
    «Fino a prova contraria lo straniero non è nostro nemico e non sarebbe cortese lasciarlo ferito e solo fuori da casa nostra ora che è qui» spiegò l’uomo passandomi una mano sulla fronte. Non aveva ancora capito che doveva portarmi in ospedale, ma almeno era gentile. «Ha la febbre alta. Rie, vai in casa e fai preparare gli impacchi. Toshiaki, ordina che sia preparata la stanza degli ospiti, intanto i tuoi fratelli mi aiuteranno a trasportare il nostro ospite» spiegò ad un bambinetto che annuì e si allontanò di corsa.
    L’uomo impartì altri ordini e con grandi sofferenze (per me) venni spostato su una barella di fortuna. «Come ti chiami straniero?» mi chiese con un sorriso benevolo
    «Nino» tossii e mi passai una mano sul viso togliendomi di dosso uno strato di sudore. «Ninomiya Kazunari» risposi con voce roca
    «Ninomiya sama, il mio nome è Toshiya e sono il capo della famiglia Morikawa. Ti ho sistemato la gamba, anche se non so dirti se ci sia qualcosa di rotto o meno. Comunque mi occuperò io di te»
    «L’ospedale va benissimo» ribattei. Non è che non apprezzassi la cortesia del signor Morikawa, che mi aveva appena sistemato un osso e mi trattava anche con grande rispetto, solo che volevo che un medico vero mi facesse una lastra e mi mettesse il gesso. Avrebbe dovuto essere così e non capivo perché quegli sconosciuti si ostinassero a voler fare tutto da sé, accidenti.
    «Sei lontano da casa, Ospedale non si trova da queste parti, ma ti prometto che farò del mio meglio perché tu possa rimetterti presto» rispose l’uomo, angelico.
    Non c’era niente da fare. Mi rassegnai ancora una volta: come il topo, non potevo scappare e in quel momento non sapevo nemmeno come spiegare che “ospedale” era un edificio, non una città.

    Quando mi svegliai era giorno. Aprii gli occhi e vidi un soffitto a me sconosciuto illuminato dalla luce che inondava la stanza. Mi dava fastidio e nascosi la faccia sotto la coperta con un gesto che sembrò costarmi tutte le energie che avevo in corpo.
    «Sei sveglio?» pronunciò una voce sottile.
    Quando girai la testa vidi una donna seduta di fianco al mio futon, steso a terra. «Chi sei?» mormorai stancamente
    «Sono Rie» rispose lei con un sospiro e un sorriso benevolo
    «Devo andare in bagno» dissi subito dopo, sentendo lo stimolo
    «Dove vuoi andare?» chiese confusa
    «La pipì» spiegai rapidamente. Più ci pensavo più mi scappava.
    «Vado a chiamare qualcuno che ti dia una mano ad alzarti. Tornerò quando avrai fatto» spiegò alzandosi da terra e uscendo da una porta a scorrimento.
    Un giovane in kimono da lavoro venne ad aiutarmi dato che non stavo in piedi da solo. Ero stanco e mi scappava troppo per fare storie, ma quando mi fossi sentito meglio speravo vivamente mi avrebbero concesso di andare sul serio in bagno, perché non mi entusiasmava l’idea di dover fare i miei bisogni in un vaso da notte.

    Mi svegliai una seconda volta ed era notte.
    Il buio sembrava totale e il silenzio era talmente profondo da farmi pensare che oltre la mia stanza il mondo fosse scomparso, inghiottito dal nulla. Mi chiesi addirittura se non stessi ancora sognando, ma i miei occhi si abituarono all’oscurità e cominciai ad intuire lo spazio intorno a me: al contrario, i sogni di solito sono luminosi, alcune cose ci appaiono indistinte e un po’ opache, ma quello che dobbiamo vedere, anche se sogniamo una scena notturna, lo vediamo sempre benissimo. Ad avvalorare l’idea che fossi sveglio per davvero si aggiunse una folata di vento. Il silenzio era tale che non sentii solo l’agitarsi delle foglie, ma anche lo scricchiolare dei rami e una pigna o altro che cadeva a terra. Quel rumore d’alberi sembrò quasi frastornante e immaginai dovesse esserci una foresta fuori da quella stanza.
    Stavo sudando, quindi decisi di mettermi seduto e levarmi di dosso le coperte. Quando provai un movimento la gamba mi fece male e trattenni a stento un’imprecazione, ma quel dolore mi regalò una consapevolezza che avevo temporaneamente perso. Improvvisamente ricordai ogni cosa: la caduta, i soldati, la folla, la corsa, il dolore…
    Lentamente, aiutandomi con le mani, mi misi a sedere lasciando le gambe distese sul materasso e una volta raddrizzatomi scostai le coperte. Non lo feci certo per guardarmi, dato che a malapena intuivo la mia sagoma scura che spiccava sul bianco del futon, quanto per sentire un po’ di aria fresca sulla pelle. Tastandomi con grande delicatezza le gambe mi resi conto che il ginocchio destro era più gonfio e l’arto era steccato e fasciato, ma non mi avevano ingessato quindi non doveva essere così grave.
    Sentendomi un po’ più sollevato cercai di fare mente locale di ciò che ricordavo, ma non trovai risposta alle mie domande, quindi decisi di capire prima di tutto dove fossi e se fossi al sicuro.
    La stanza era buia e la notte era silenziosa, ma riuscii a distinguere dapprima dei capelli neri lunghi che spiccavano sul pavimento chiaro, dopodiché intuii tutto il resto del corpo di una donna che dormiva a terra vicina al mio futon.
    «Ehi senti» accennai a bassa voce, un po’ intimorito.
    Bastò quel mio sussurro e lei si svegliò immediatamente, mettendosi a sedere. «Ti sei svegliato» osservò acutamente. Sembrava totalmente sveglia dalla voce, quindi forse prima non stava dormendo. «E sei persino seduto, significa che stai meglio»
    «Chi sei? E dove siamo?»
    «Mi chiamo Rie. Ti ricordi dei guerrieri al mercato? Sono io che ti ho portato via di là»
    «Sì, mi ricordo. Ti ringrazio» dissi piegando il capo. «Io sono»
    «Ninomiya Kazunari, lo so» mi interruppe. «Nelle ultime due settimane ti sei svegliato spesso e ogni tanto, oltre a chiedermi chi fossi, ti sei presentato a tua volta» spiegò ridacchiando. «Riguardo al “dove sei”, questa è casa mia. O meglio, è la casa di mio padre: Morikawa Toshiya. La nostra tenuta si trova nelle terre degli Ujie, sotto il dominio della famiglia Tokudaiji. Tu da dove vieni?».
    La fissai stancamente. Che razza di indicazioni erano quelle? Non ce l’aveva un nome quella città? Sapere chi ci abitava non mi avrebbe di certo aiutato a capire dov’ero finito, quindi qual’era la provincia in cui mi trovavo?
    «Io vengo da Tōkyō, nella prefettura di Tōkyō. Questa che prefettura è?» cercai di indagare
    «Cos’è una prefettura?» chiese lei. «È così che si chiamano i territori dalle tue parti?»
    «Veramente si chiamano così in tutto il Giappone» le feci notare
    «Capisco» annuì la donna incrociando le gambe
    «Io no, faresti capire anche a me?»
    «Dopo, ora avrai fame immagino» e nel momento in cui me lo disse sentii una voragine al posto dello stomaco. «Vado a prenderti qualcosa dalle cucine e quando ti sentirai meglio parleremo ancora» propose prima di alzarsi in piedi. Uscì silenziosamente dalla stanza e mi lasciò da solo.
    Sentii i suoi passi sul pavimento del corridoio. Il legno scricchiolava lentamente segnalandomi che stava passando alle mie spalle e che quindi doveva esserci un passaggio dietro quella parete della stanza. Quanto lungo però non potevo dirlo con certezza perchè i rumori continuarono a sentirsi ancora per molto, sempre più attutiti: anche l'uscita era da quella parte? Quanto lontano? Ma non era importante, non sarei mai riuscito a non fare rumore in una casa pavimentata in parquet antico.
    La donna tornò dopo parecchi minuti con un vassoio: c’erano una ciotola di riso, del pesce abbrustolito e della misoshiru con tōfu. Il tutto rigorosamente freddo. Dato che aveva portato anche una candela sul vassoio ne dedussi che mancava la corrente, altrimenti come spiegare la mancata scaldatina al microonde? Il pesce non era nemmeno pulito, quindi mi ritrovai nel cuore della notte a togliere le spine al lume di una candela.
    «Posso dirti la mia opinione?» domandò la donna fissandomi mentre succhiavo avidamente anche la più piccola lisca: mi sembrava di non mangiare da una vita! «Tu sei uno spirito»
    «Ritenta» biascicai con le labbra già sull’orlo della ciotola della misoshiru
    «Parli proprio strano» annuì. «Allora, sei uno spirito o no?»
    «E’ una candid-camera?» chiesi appoggiando le bacchette al vassoio e guardandomi in giro. Grazie alla candela non vedevo più niente dell’ambiente intorno a me, a meno che non lasciassi abituare di nuovo gli occhi all’oscurità.
    «Senti, vogliamo andare avanti a farci domande senza dare risposte?» fece lei con uno sbuffo. «Io ti chiedo una cosa, tu rispondi e poi ne chiedi una a me»
    «Ok» risposi tornando alla cena, convinto che fosse un po’ esagerato rompermi la gamba per una candid-camera. «Va bene» dissi quando notai che la donna davanti a me mi fissava come se le avessi parlato in russo.
    «Bene, dunque sei uno spirito?» insistette
    «Oh che diavolo, no! Mi sono rotto una gamba, come faccio ad essere uno spirito?» sospirai esasperato
    «Non ho detto “fantasma”, ho detto “spirito”» ribattè sussurrando. «E non urlare o sveglierai tutti!»
    «Ok, ok, non urlo» borbottai. Cosa non quadrava in quella situazione? Perché qualcosa sicuramente impediva alla nostra conversazione di andare nel verso giusto. «Non sono né un fantasma, né uno spirito. Come diavolo ti viene in mente?»
    «Ti ho visto quando sei comparso. Prima non c’era nessuno e improvvisamente sei apparso nel cielo. Eri nell’aria, sopra la via del mercato, e poi sei piombato a terra. Se non sei uno spirito chi può fare magie simili?» domandò aggrottando le sopracciglia.
    Alla luce della candela, e finalmente con un po’ di lucidità, riconobbi il suo viso. Il giorno che mi ero ferito, i capelli erano nascosti sotto il cappello, ma ricordavo come un sogno alcune delle volte in cui dovevo essermi invece svegliato: lei era sempre stata vicina al mio letto. Aveva il viso tondo e i tratti morbidi, ancora un po’ fanciulleschi. Gli occhi avevano le ciglia lunghe e sembravano vedere nel buio meglio di quanto non facessero i miei.
    «Non faccio magie» le dissi. Non era proprio la verità, ma io facevo trucchi di prestigio, mentre lei parlava di capacità ben diverse. «Sono un essere umano come te. Vengo da Tōkyō e ti giuro che io ero lì, poi non so cosa è successo ma, puff, mi sono ritrovato qui e sono caduto a terra. Non volo e non so teletrasportarmi. Non so che giorno sia, dove siamo, né come ci sono arrivato» spiegai con calma. «Avete un telefono? Posso chiamare qualcuno che mi faccia venire a prendere»
    «Telefono?» ripetè lei
    «O un cellulare» suggerii, ricordandomi che era saltata la corrente e la rete fissa quindi non avrebbe funzionato
    «Cellulare?» continuò a dire pensierosa. Mi prendeva in giro o era solo scema? Quel suo farmi il verso cominciava ad infastidirmi. «No, non esistono queste cose da noi. Ospedale dov’è? È vicina a Tōkyō, la tua città?»
    «Vorrai scherzare, un ospedale non è una città» sospirai esasperato, posando sul vassoio la ciotola di riso svuotata fino all’ultimo chicco. «Vuoi dirmi che non avete un ospedale nelle vicinanze? Né un telefono? E nessuno ha un cellulare? Ma dove siamo, in Burundi?». Ero sconcertato, per un attimo pensai che la fasciatura fosse una finta e che io fossi veramente vittima di un pessimo scherzo.
    «Te l’ho detto, siamo nel regno dei Tokudaiji. Qui sono loro che hanno preso il comando dopo che lo shōgun ha perso influenza, forse nel tuo territorio quelle cose ci sono, ma qui da noi no» mi spiegò lei con molta calma. Mi rispondeva con la pazienza di una maestra d’asilo in presenza del più somaro della classe. Era snervante.
    «Un attimo. Shōgun?» domandai, improvvisamente colpito da quella parola. «Che significa? Il sistema shogunale è stato smantellato da più di un secolo». La guardai con gli occhi sgranati, mentre lei non sembrava altrettanto sorpresa. Forse perché si era abituata all’idea che io fossi uno spirito quindi qualsiasi cosa fosse successa ad un uomo normale non poteva essere più tanto strabiliante. «Che giorno è oggi?» domandai
    «Sono passate quasi due settimane dal tuo arrivo qui, hai avuto la febbre molto alta. Oggi è il ventitreesimo giorno del decimo mese di quest’anno» rispose
    «Di quale anno?» insistetti
    «Non saprei, queste sono cose che sa uno studioso. Comunque credo che il tennō¹ si chiami Go-Kashiwabara».
    Non avevo mai sentito un nome simile, ma a parte tutto, a meno che in quelle due settimane l’imperatore non fosse morto, io vivevo nell’epoca Heisei. «Non sai dirmi l’anno nel calendario cristiano?»
    «Cos’è un calendario cristiano?».
    Avevo perso il conto delle parole di cui non conosceva il significato e grazie a quell’irritante particolare cominciai ad unire i puntini: non sapeva cosa fosse un cellulare, quindi dovevo essere finito in una campagna molto isolata, ma se non c’era nemmeno un telefono, o ero finito nel posto più remoto del Giappone oppure c’era qualcosa di strano. Le prime telecomunicazioni moderne in Giappone erano arrivate alla fine dell’800, così come la figura dello shōgun era scomparsa a metà del diciannovesimo secolo, ma se la donna davanti a me non sapeva nemmeno cosa fosse un calendario cristiano allora dovevo andare molto più indietro! I primi contatti con gli occidentali erano avvenuti nel 1500, ma non potevo certo pretendere che un popolano qualsiasi sapesse subito chi fossero i portoghesi e cosa fosse il cristianesimo: era un’epoca feudale, mica usavano twitter per comunicarsi le ultime news. Quindi o gli europei c’erano e lei non lo sapeva, oppure non c’erano affatto e quello era un Giappone ancora più antico.
    «Chi è lo shōgun²?» domandai sudando freddo. Non sapevo molto degli imperatori, ma qualcosa degli shōgun sì: avevo giocato un sacco di videogame di strategia e di combattimento ambientati nel Giappone feudale.
    «Ti ripeto che non ne so molto di politica» mi rispose scuotendo il capo. «Non mi interesso e poi lo shōgun ora non è tanto importante. Ormai sono alcuni anni che molti dei suoi sottoposti agiscono in maniera totalmente indipendente. I Tokudaiji erano una famiglia cadetta, ma i legami con le persone al potere erano molto blandi quindi sono stati i primi a commettere tradimento e a dichiarare proprio questo territorio» tentò di raccontarmi ciò che sapeva. Non era molto, ma per essere una donna di quel periodo sapeva anche troppo.
    Non erano molte informazioni, e tutta la situazione in sé era abbastanza assurda, comunque quel che sapevo era sufficiente per farmi capire che il periodo al quale si riferivano i racconti della ragazza era quello a cavallo tra il 1400 e il 1500, in una delle epoche più sfruttate da sceneggiatori di manga, anime, film e videogiochi: l’era Sengoku.³
    Mi lasciai andare tornando disteso sul futon. «Stai bene? Sei pallido» mi fece notare lei. Mi veniva voglia di strozzarla: ma come si fa a stare bene quando tutto fa pensare di essere stati catapultati indietro nel tempo? Senza sapere nemmeno come, tra l'altro.
    «Va bene, mi avete spaventato a sufficienza. Adesso basta per favore, lo scherzo è durato anche troppo» sbuffai cercando di rigirarmi su un fianco, ma la gamba dolorante e steccata mi impedì il movimento. Era una realtà che non potevo negare, ma ancora non volevo crederci.
    Mi gettai la coperta addosso nascondendo anche il viso e non risposi a nessun richiamo e a nessuna domanda. Quando si fossero decisi a smetterla di prendermi in giro avrei ripreso a parlare, ma non avrei dato altro materiale da far mandare in onda per quella stupida candid-camera.
    Lei se andò di nuovo, portando via il vassoio e la candela, ma poi tornò, spense la fiamma e rimase con me nella stanza, senza muoversi.

    ¹ Il tennō 天皇 è il nome giapponese della carica di imperatore
    ² Lo shōgun era la carica più alta delle forze armate del paese. Dopo un po' che si era stabilita questa carica e con il decadere dell'effettivo potere della corte imperiale, lo shōgun era colui che a tutti gli effetti controllava l'impero giapponese (anche perchè la forza militare è sotto il suo comando)
    ³ L'epoca Sengoku (1478 - 1605) viene chiamata anche periodo degli stati combattenti in cui il potere dello shōgun era indebolito e i suoi sottoposti che controllavano varie zone del Giappone cominciarono a combattere tra loro per avere maggior potere. Questo periodo è molto sfruttato per videogiochi, libri, anime e manga (es: Inuyasha).


    Nel proZZimo capitolo

    «Ok, senti, sono confuso, quindi non so bene da dove cominciare»
    «Comincia col dirmi chi sei» propose fissando lo sguardo sul giardino di casa sua
    «Io sono giapponese e sono un essere umano. Solo che non appartengo a questo Giappone. Sono abbastanza sicuro di venire dal futuro».

    «Va bene, ti credo» annuì ed io non riuscii a trattenere un sorriso di vittoria che forse l'oscurità le nascose perchè non sembrò notarlo. «Vai a riposare, Ninomiya sama. Domani ti aspetta un lungo colloquio» sembrò ordinarmi. «E se non prendi sonno comincia a pensare a cosa dirai. Io non farò parola a nessuno di ciò che abbiamo scoperto stasera: dire la verità o inventari qualche storia è una tua scelta; farò finta di non sapere nulla».
    Perchè non rivelare ai suoi stessi parenti chi stavano tenendo nelle loro stanze? O magari era un test per vedere se avessi detto tutto anche dandomi la possibilità di mentire?

    «Vorrai capire come tornare a Tokyo, no?» domandò con un sorriso timido
    «Ti ringrazio, ma non è detto che io rimanga in questa casa». Io che venivo dal futuro avevo solo un'incognita grossa come una casa davanti a me.
    «Se al mio ritorno sarai ancora qui mi racconterai qualcosa del tuo mondo?»



    sì, sì... in prima persona... eh... mi voglio del male

    Edited by hika86 - 10/3/2013, 18:04
     
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  6. hika86
     
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    Ok non ho capito una frase di quel che hai scritto, ma non importa XD
    Direi che puoi stare piuttosto tranquilla, il mondo è pieno di donne °_° non puoi essere gelosa di tutte quelle che incrocerà Nino. Rie è lì a curarlo (e a non capire cosa dice) non a fare altro XD
     
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  7. hika86
     
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    Tra l'altro ho notato che sei 'unica ad aver commentato il primo capitolo e anche l'unica Nino fanz *-* Ci vuole un premio!
    Ho deciso che ti regalo un mappamondo... però un mappamondo del 1500 XD wahahahah!!
     
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  8. hika86
     
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    Sagi


    2.Il Giappone di ieri, il Giappone di domani
    Passai i successivi tre o quattro giorni in preda ad una forte febbre.
    Le coperte mi si appiccicavano addosso per il sudore, ma allo stesso tempo tremavo di freddo e avevo quasi paura a tirar fuori la testa dal letto per guardarmi intorno, cosa che, pure a volerla fare, non avrei potuto, perchè avevo il bioritmo totalmente sballato: dormivo in pieno giorno quando c'era luce sufficiente a vedere ciò che mi circondava.
    Il rovescio della medaglia era che stavo sveglio la notte, e il silenzio allora era talmente profondo da angosciarmi più di ogni altra cosa. In quelle ore di buio totale era più come se stessi vivendo un incubo, che la realtà.
    L'alba poi non era motivo nè di sollievo, nè di terrore peggiore di quello che avevo avuto prima e che avrei avuto anche dopo: ogni volta che la luce si faceva più intensa mi addormentavo sperando di svegliarmi nel mio letto, ma non succedeva mai.

    Una di quelle notti mi svegliai già stanco. Capii subito che quella sensazione significava che stavo meglio: era la stanchezza tipica di quando si riposa troppo, quella che accompagna una malattia.
    Pur se al buio, ero solito lanciare qualche occhiata intorno per controllare chi o cosa fosse vicino a me, e mi accorsi che la donna che mi ero sempre ritrovato in camera non c'era. La porta scorrevole infondo alla stanza era aperta e il vento fresco della sera arrivava fino al mio letto smuovendo le lenzuola. Ebbi l'impressione che quella brezza mi stesse invitando ad uscire e mi riscoprii a desiderare di seguirla: dovevano essere quasi tre settimane che non mi alzavo da lì, avevo male al sedere e alla schiena quindi un po' di movimento sarebbe stata una novità gradita.
    Lentamente e con molta attenzione, mi alzai a sedere e mi girai di modo da mettermi carponi sul materasso: avrei gattonato fino alla porta trascinandomi la gamba dolorante e in quel modo mi sarei mosso rapidamente anche se azzoppato. Certo, delle stampelle avrebbero fatto comodo, ma che potevo pretendere?
    Arrivai all'uscita senza fare troppo rumore e il vento mi schiaffeggiò il viso scompigliandomi i capelli, più lunghi di quanto ricordassi.
    Appena oltre la soglia c'era un ballatoio in legno levigato, coperto da una tettoia anch'essa in legno, sostenuta da alcune colonne. Raggiunsi la più vicina e mi ci aggrappai abbracciandola, dato che era il sostegno più simile ad una stampella che potessi avere: il ballatoio infatti non era provvisto di parapetto. Mi trovavo a piano terra che, come in tutte le case tradizionali, si trovava solo a poco più di un metro dal suolo. Mi alzai in piedi facendo leva sulla gamba sana e quando finalmente mi ritrovai in posizione eretta mi sembrò di rinascere nonostante un violento capogiro.
    Pur certo che non dovevo essere cresciuto in quelle settimane, mi sentii altissimo dopo tutti quei giorni passati steso a livello del pavimento, e lasciai spaziare il mio sguardo sul panorama oltre il ballatoio, sentendomi come un leone che osserva la savana dall'alto della sua rupe.
    La luna piena sconfiggeva l'oscurità che sarebbe altrimenti stata totale non essendovi luce elettrica. Potevo così vedere sagome e ombre di un vasto giardino: alcuni alberi stavano perdendo le foglie e altri cespugli erano già del tutto spogli, un sentiero di chiare pietre levigate portava dalle scale del ballatoio -lontane alcuni metri da me- ad un lontano ponticello che si piegava ad arco su un grande stagno. Potevo vedere la sagoma della luna riflessa nelle sue acque leggermente agitate da quella che doveva essere una piccola cascata. Ne sentivo il rumore ora che ero uscito, ma non doveva essere molto vicina anche perchè non riuscivo a vedere nemmeno la sua schiuma in quel buio. Intorno all'ampio spazio del giardino si alzavano delle mura e oltre di esse c'era una foresta scura che si arrampicava su per la montagna della quale, sopra la mia testa, vedevo la vetta, quindi non doveva essere molto alta.
    Davanti all'imponenza della natura e al timore che mi incuteva, tornai a sentirmi piccolo, solo e sfigato: altro che leone nella savana; però non ebbi tempo per demoralizzarmi perchè sentii un sospiro alle mie spalle e girai la testa per tornare a guardare verso la porta della mia stanza.
    La tizia che mi aveva assistito in tutti quei giorni era rannicchiata a terra, sulla destra della soglia e io non l'avevo nemmeno notata uscendo.
    «Sei Rie, giusto?» domandai per sicurezza. Dopo la sera del pesce a lume di candela non le avevo più rivolto la parola se non per dire che dovevo andare in bagno. Non era colpa sua, ma mi era stata antipatica tutto il tempo perchè essendo la più vicina, era anche il miglior obiettivo su cui scaricare la mia rabbia e la mia frustrazione.
    «Giusto, Ninomiya sama» rispose lei annuendo ed alzandosi dal pavimento. «Sei in piedi, significa che stai meglio»
    «Dipende dai punti di vista» riuscii solo a rispondere. Fisicamente ero ok, mentalmente non volevo ancora accettare la realtà e ci stavo male.
    «Domani allora incontrerai mio padre. Ti va se parliamo un po' noi due prima?» suggerì sedendosi di nuovo a terra, stavolta vicino a me, con le gambe che penzolavano giù dal ballatoio.
    Sempre tenendomi alla colonna tornai per terra con molta calma, poi mi sedetti tenendo la gamba sana ciondolante come le sue e quella ammaccata distesa sul legno. Appoggiai la schiena contro la colonna e feci un sospiro profondo: niente scivoloni, niente cadute e niente lamenti da femminuccia. Grandioso!
    «Abbiamo pulito i tuoi vestiti. Ti proporrei di rimetterli, ma sono stati rovinati» cominciò la ragazza
    «Credo di avervi disturbato abbastanza, non dovete anche vestirmi. E poi penso che almeno domani mi darebbe sicurezza rimettere le mie cose».
    Non sapevo come l'avrebbe presa il signor Morikawa se mi fossi presentato davanti a lui in jeans e maglietta nera con una luna contro cui spiccava la sagoma di E.T. sulla bicicletta volante, ma al diavolo: lui manco sapeva chi fosse E.T.!
    «Hai voglia di parlare stasera? Domani dovrai comunque farlo: a mio padre devi delle risposte» mi spiegò in tono conciliante, ma era chiaro che avrei dovuto spiegare qualcosa il giorno dopo, volente o nolente.
    «E a te?» azzardai a chiedere
    «A me non devi niente» spiegò scuotendo il capo
    «Ti devo la vita, forse» pronunciai quelle parole con fare pensoso. Non avrei mai creduto che nella mia vita avrei pronunciato simili parole. Nella realtà perlomeno, in un film ci poteva stare.
    «Ma non l'ho fatto per avere in cambio qualcosa» specificò
    «Quindi tuoi padre sì?» ragionai
    «Gli sei debitore» ribattè come se fosse stato un dogma a cui non doveva seguire alcuna spiegazione
    «Ok, senti, sono confuso, quindi non so bene da dove cominciare»
    «Comincia col dirmi chi sei» propose fissando lo sguardo sul giardino di casa sua
    «Bene, allora, sono Ninomiya Kazunari» cominciai, convinto che tanto non avrebbe capito nulla di quel che le avrei detto. «Vengo da Tōkyō. Il mio lavoro è fare l'idol: faccio parte di un gruppo di cinque persone. Noi cantiamo, recitiamo, facciamo programmi televisivi per far ridere le persone e programmi radiofonici per passare la musica nostra e di altri artisti. A volte facciamo i modelli, ci ingaggiano per delle pubblicità e ci è capitato di comparire su degli aeroplani con la nostra faccia grande, non so, trenta volte più del normale? Sì, più o meno» spiegai stringendomi nelle spalle.
    Lei mi osservò perplessa. Se avessi parlato inglese non avrebbe fatto differenza.
    «Ninomiya sama, parli sul serio?» mi chiese facendosi scura in viso
    «Beh, nessuno si è messo a ridere» puntualizzai
    «Quindi è vero» fece girandosi completamente verso di me e raccogliendo le gambe, incrociandole sul legno del pavimento. «Tu non sei di questo mondo»
    «In parte sì e in parte no. Non è così facile» balbettai confuso. «Io sono giapponese e sono un essere umano. Solo che non appartengo a questo Giappone» tentai di spiegare
    «E a quale allora?»
    «Sono abbastanza sicuro di venire dal futuro».
    Non si ha idea di quanto ci si possa sentire idioti a dire una cosa del genere finchè non lo si prova e, dato che non sono tanti quelli che fanno viaggi nel tempo durante i weekend liberi, nessuno realizzerà mai una cosa simile: tutti continueranno a pensare che sia una delle battute più cool da dire, io che invece la dissi mi sentii un imbecille, nonostante fosse la verità.
    «Penso che sia successo qualcosa che mi ha fatto viaggiare indietro nel tempo. Di cinquecento anni, credo» conclusi per poi intrecciare tra loro le dita delle mani, posate in grembo. Appoggiai la testa alla colonna dietro di me. Era una realtà faticosa, ma in quei giorni mi ero reso conto che fuggire e nascondermi non era servito a niente, se non a stancarmi di più.
    «Come lo sai?» mi chiese pacata
    «Come lo so? Un attimo, non mi dirai che te la sei bevuta così? Che mi credi subito?» esclamai spalancando gli occhi
    «Non alzare la voce» mi rimproverò mettendosi un dito davanti alle labbra. «Ti credo, sì. E' un'ipotesi più plausibile di quella dello spirito, no?» non c'era niente di plausibile in quella situazione, ma annuii: sì, per assurdo era più credibile che un misterioso Doc mi avesse sbattuto in una Delorian invisibile, piuttosto che pensare che fossi un essere dotato di strani poteri.
    «Quanto hai capito di ciò che ho detto prima?» le chiesi
    «Quasi niente» rispose lei scuotendo il capo
    «Ecco come lo so. Non sapevi cos'era un telefono e nessuno di voi conosce gli ospedali. Inoltre non conoscete Tōkyō e se ti parlo di idol, programmi televisivi, radio, pubblicità e aerei è come se parlassi arabo»
    «Che lingua sarebbe?» chiese confusa.
    La fissai incredulo, ma poi mi venne in mente che i giapponesi dell'epoca non avevano grandi conoscenze geografiche all'infuori del loro paese, della Cina e forse della Corea. «E' una lingua parlata in un paese lontano» spiegai con pazienza
    «Così io non so niente del tuo Giappone. Ma tu cosa sai del mio?» fece con una vena di ostilità. «Mi hai riempita di domande qualche sera fa, quindi nemmeno tu sai granchè»
    «Dovevo capire in quale Giappone fossi, no?» risposi piccato. «E comunque ne so a valanghe di questo... questo tempo qui, questo Giappone dove vivi tu» dissi indicando intorno a lei. «Io l'ho studiato sui libri. Lo so cosa sta succedendo: è l'epoca Sengoku, i sottoposti dello shōgun si stanno sganciando dal suo controllo perchè la sua presa politica è debole e chi prima, chi dopo, tutti alla fine cominceranno a rivendicare come proprio il territorio che prima controllavano in sua vece. Ognuno vorrà sempre più terreno e comincerà a lottare con i vicini. E' un periodo di guerre continue, almeno finchè...» avrei voluto parlarle di Oda Nobunaga e della sua missione riunificatrice del paese, ma mi bloccai. Nei fumetti succede sempre un gran casino se si svelano i dettagli del futuro alla gente del passato.
    «Finchè?» insistette lei
    «Finchè qualcuno di più forte non prevarrà su tutti» conclusi impacciato. Avevo apposta usato dei paroloni nel mio discorso per impressionarla e convincerla: la verità era che non sapevo molto dei dettagli di quell'epoca, ma dovevo pur convincerla di aver ragione io a dire che venivo dal futuro.
    «Va bene, ti credo» annuì ed io non riuscii a trattenere un sorriso di vittoria che forse l'oscurità le nascose perchè non sembrò notarlo. «Anche perchè so che la magia esiste, quindi è possibile che sia accaduta una cosa simile. Ma quel che non capisco è come»
    «Ne so quanto te. Non sapevo che sarei finito qui perchè non ho fatto niente di» mi bloccai spalancando gli occhi. Raddrizzai la schiena staccandomi dalla colonna. «La magia esiste?» domandai balbettando
    «Mi hai spaventato» sospirò la ragazza che mi aveva fissato esterrefatta. Forse aveva creduto che mi fossi ricordato qualcosa.
    «Che diavolo, va bene tutto, ma se ora spuntano fuori maghi e bestie strane mi toccherà ritrattare le mie convinzioni: non vengo dal futuro, sono finito in un video gioco!» esclamai shockato
    «La vuoi smettere di urlare?» fece piegandosi verso di me e mettendomi le mani sulla bocca. «Nel mio Giappone la magia c'è, peccato non possa farti stare zitto grazie ad essa» minacciò socchiudendo gli occhi.
    Deglutii e mi segnai mentalmente di parlare piano, quello sguardo non mi piaceva.
    «Che magia è?» chiesi piano, quando mi lasciò libero
    «Porta male parlarne. Cambiamo discorso» mi rispose girando lo sguardo verso il giardino. Sembrava avessi toccato un tasto dolente.
    «Tu ce l'hai?» domandai ancora
    «Vuoi smetterla?» fece infastidita, alzandosi dal pavimento. «Ne parli come se fosse una cosa bella, ma non lo è. Non qui» specificò lapidaria.
    Si sistemò il kimono che indossava. «Vai a riposare, Ninomiya sama. Domani ti aspetta un lungo colloquio» sembrò ordinarmi. «E se non prendi sonno comincia a pensare a cosa dirai. Io non farò parola a nessuno di ciò che abbiamo scoperto stasera: dire la verità o fingere, dirla tutta o modificarla è una tua scelta; farò finta di non sapere nulla» e fece per andarsene
    «Perchè?» chiesi stranito.
    Quella era la casa della sua famiglia, loro mi stavano ospitando lì, quindi perchè non rivelare ai suoi stessi parenti chi stavano tenendo nelle loro stanze? O magari era un test per vedere se avessi detto tutto anche dandomi la possibilità di mentire?
    Quella donna, Rie, se ne andrò senza rispondere.
    Non rimasi a lungo lì fuori da solo. Dopo un po' mi resi conto che faceva freddo e tornai in camera. Chiusi la porta, sì, perchè quel mondo là fuori era ancora totalmente sconosciuto e continuava a spaventarmi, ma dormii profondamente e senza troppa angoscia.

    Il mattino dopo venni svegliato alle cinque e Rie non era lì.
    Dalla porta laterale entrò un domestico che mi lasciò i vestiti vicino al futon. «Ninomiya sama, vi attendo qui fuori. Quando sarete pronto chiamatemi e verrò ad aiutarvi ad alzarvi se ne avrete bisogno» si inchinò fino a toccare il pavimento con la punta del naso ed uscì dalla porta che quella notte avevo trovata aperta.
    Nel fissare il pannello in carta di riso dietro il quale era scomparso, mi resi conto per la prima volta di un risvolto della situazione a cui non avevo pensato. Rie con me aveva parlato in maniera molto sbrigativa fin dal primo momento, data l'emergenza in cui mi ero trovato allora, e così aveva continuato a fare anche i giorni successivi, quindi non avevo pensato che il linguaggio potesse essere un problema. In quel Giappone feudale però la gerarchia era tutto e alcuni atti di deferenza che io usavo nel mio tempo erano gesti di pura formalità il cui unico significato era il voler essere gentili. A quel tempo invece non erano formalità: usare un certo linguaggio con una persona o con un'altra poteva anche significare offenderla e oltraggiarla al punto da rischiare la vita. La mia idea del Giappone di quell'epoca era quella di una società in guerra, basata sulla forza, sui legami, sull'onore e sulla lealtà, quindi davanti al padrone di casa non avrei potuto esordire con un "Oh, salve", così come non avrei potuto usarlo neanche con un servitore: la gerarchia era rigida, ognuno aveva il suo posto e andava trattato in base a quello. Il problema quindi era capire come rivolgermi alle persone davanti a me e tirar fuori registri linguistici che io non conoscevo o che non ero molto abituato ad usare. Ma poi: che gradino gerarchico occupavano i ventenni venuti dal futuro?
    Senza trovare risposta, indossai la maglietta, i boxer e i jeans. Mi rimisi anche l'orologio al polso. Il fatto che funzionasse mi stupì, non perchè nella caduta avesse preso un colpo sufficiente da fermarlo, ma perchè qualcosa nella testa mi aveva fatto credere le lancette del ventunesimo secolo non avrebbero girato avendo io viaggiato indietro nel tempo di 500 anni.
    I pantaloni non erano messi bene e mi pianse il cuore vederli rotti così. Quindi decisi di strapparli del tutto e di accorciarli.
    Bermuda ed E.T.: chi non si vestiva così all'epoca?
    Per alzarmi usai il bastone che mi era stato portato, ma la gamba stava decisamente meglio. Deciso a non chiamare per farmi aiutare, mi aggrappai al legno e feci forza sulle braccia per issarmi da solo. Lentamente e a fatica mi ritrovai in piedi, anche se malfermo.
    «Che bravo, Ninomiya sama» farfugliai tra me, ansimando per tutta quell'improvvisa attività fisica. Ridacchiai perchè quell'onorifico era buffo detto con la deferenza del servitore: erano proprio altri tempi.
    «Permesso» sentii dire nel momento in cui provai a fare un passo. Nel girarmi persi l'equilibrio e sarei rovinato a terra facendo un gran baccano se Rie non mi avesse sorretto.
    «C'è mancato poco, grazie» mormorai appoggiandomi al bastone
    «Stai attento» mi consigliò lasciando andare la presa sulle mie braccia
    «Come ti sei conciata?» domandai squadrandola. Non indossava un kimono, ma una tenuta da viaggio scura e abbastanza logora. Si era anche raccolta i capelli in una coda.
    «Sto partendo» mi rispose con un sorriso. «Quando ci siamo incontrati ero in missione, ma siccome ho insistito perchè ti aiutassimo, mio fratello mi ha costretta a rimanere prendendomi la responsabilità del nostro ospite».
    La fissai incredulo. Avevo pensato a lei come ad una ragazza curiosa e insolente, inoltre mi aveva infastidito il suo continuo domandare e il fatto che non capisse nemmeno la metà delle parole che usavo. Eppure, a parte lei, nessuno della famiglia che mi ospitava si era preoccupato per me e non ricordavo di essermi mai svegliato senza averla in camera. Certo, il signor Morikawa mi aveva curato, ma lo ricordavo ben poco perchè aveva semplicemente fatto il suo lavoro: anche se con molta gentilezza, si era solamente assicurato che mi potessi rimettere e non mi aveva mai rivolto la parola.
    Dalla spiegazione che Rie mi rivolse in quel momento capii che si era resa responsabile di una mia eventuale fuga, di danni che avrei potuto causare o di tradimenti, se mi fossi rivelato una spia. Quindi le dovevo molto più che la vita, ma non me n'ero reso conto.
    Pensai di essere stato scortese e mi misi a pensare a qualcosa da dirle, ma non me ne lasciò il tempo.
    «Devi essere arrivato qui con una magia» cominciò a dire tornando a farsi scura in viso. «Ho molte missioni da compiere dopo queste settimane di inattività, ma farò qualche ricerca: chiederò a chi ne sa qualcosa, si dice che al palazzo dei Tokudaiji ci sia un uomo che sa usarla bene quindi mi informerò, cercherò di indagare e se scoprirò qualcosa che può tornarti utile te lo farò sapere» mi spiegò
    «Tornarmi utile?» chiesi confuso
    «Vorrai capire come tornare a Tōkyō, no?» domandò con un sorriso timido
    «Ti ringrazio, ma non è detto che io rimanga in questa casa» le feci notare divertito, mentre facevo i primi passi verso la porta, dandole le spalle. Ma non c'era niente da ridere: io che venivo dal futuro avevo solo un'incognita grossa come una casa davanti a me.
    «Se al mio ritorno sarai ancora qui mi racconterai qualcosa del tuo mondo?» chiese speranzosa
    «Se avrai notizie per me, potrei farci un pensierino» concessi stringendomi nelle spalle con un sorriso. Ero arrivato alla porta senza eccessive difficoltà, quindi ero piuttosto soddisfatto di me stesso.
    «E' una promessa» la sentii concludere.
    Per un momento mi sentii in colpa: le dovevo molto, mi stava offrendo altro aiuto e io la ricambiavo con parole tanto scontrose. Eppure era la mia unica alleata in un mondo che non era il mio! Maledissi la mia difficoltà nell'esprimere sinceramente quel che provavo e, appoggiandomi alla trama in legno della porta, feci per girarmi, ma quando guardai alle mie spalle Rie era già andata via. Forse si era offesa o forse doveva partire in fretta.
    «Ninomiya sama, siete pronto?» domandò il domestico quando uscii dalla camera
    «Sì, possiamo andare» dissi annuendo col capo.
    Ormai Rie era partita ed io ero solo. La mia sopravvivenza dipendeva da me soltanto quindi decisi di concentrarmi sul colloquio che stavo per avere con il signor Morikawa: mi aveva curato, mi aveva ospitato e aveva lasciato Rie al mio fianco come un'infermiera o per tenermi d'occhio; anche a lui dovevo molto, ma dovevo far attenzione a come comportarmi perchè se volevo tornare nel mio futuro lontano era bene che mi prendessi cura di quello più immediato.

    La villa dei Morikawa era piuttosto grande. Non che mi fossi guardato molto in giro in quei momenti, ero preoccupato da altro, però il tragitto che feci zoppicando dalla stanza fino a dove incontrai il padrone di casa mi sembrò infinito.
    Uscito sul ballatoio fuori dalla porta della camera, voltai a sinistra e lo percorremmo per tutta la larghezza della casa. Svoltammo a sinistra, continuando a seguirlo fino ad un paio di gradini in legno che davano l'occasione di scendere da quel camminamento che entro pochi metri comunque si sarebbe interrotto. Fare quella breve scaletta non fu semplice perchè più usavo la gamba, più tornava a farmi male. Alla fine toccai terra con un sospiro di sollievo e il domestico, che mi aveva atteso un paio di passi più avanti, riprese a farmi strada.
    Ancora pochi metri e finimmo di percorrere un intero lato della struttura. Quando svoltammo di nuovo a sinistra mi resi conto che quello davanti a me era lo spiazzo di terra chiara dove ero stato portato il primo giorno. Vidi il grande cancello in legno e la porticina laterale più piccola. Anche quel giorno c'erano uomini con le spade che si allenavano. Indossavano kimono scuri comodi per il combattimento ed erano tutti ammassati in un punto dello spiazzo, concentrati su qualcosa. Urlavano due nomi -"Toshinori sama" e "Nagatoshi sama"- e capii che stavano incitando due persone quando il loro cerchio si ruppe improvvisamente: alcuni si fecero indietro di scatto, altri corsero via per fare spazio alla coppia di combattenti che si stava muovendo oltre i confini creati dal cerchio degli uomini.
    Un ragazzo magro e sottile, ma molto rapido, aveva cominciato una feroce offensiva nei confronti del suo opponente, un uomo più alto di lui e dalla massa muscolare molto più sviluppata. Lo potevo constatare perchè si era tolto la parte superiore del kimono e combatteva a torso nudo, sudato come lo sono io durante un concerto al Kokuritsu! Questi subiva l'attacco indietreggiando continuamente, ma si difendeva bene, parando ogni tentativo dell'altro di trovare uno spiraglio per affondare. Gli uomini intorno incitavano i colpi continui urlando: «Nagatoshi! Nagatoshi sama! Nagatoshi sama forza!».
    Ad un tratto, come se fino a quel momento avesse subito l'offensiva solo perchè l'aveva reso possibile, il più grande sembrò stufarsi e alzò la mano colpendo con l'elsa il gomito dell'avversario. Colto di sorpresa, il ragazzo magrolino trattenne a stento un grido di dolore e la mano perse la presa sulla spada, dopodichè l'avversario gli diede una spallata che lo fece finire a terra. Quando aprì gli occhi, dopo aver battuto la schiena, si ritrovò la punta della spada in legno davanti al naso e a quel punto la folla inneggiò al vincitore: «Toshinori sama! Toshinori sama è il migliore!».
    «Ninomiya sama» mi sentii chiamare. Non mi ero accorto di essermi fermato ad osservare con meraviglia il combattimento e stavo così facendo aspettare il padrone di casa.
    Il momento prima di rimettermi a camminare vidi semplicemente che il vinto si rialzava da terra, snobbando la mano che il vincitore gli aveva sportivamente offerto. A me una mano in quel momento non avrebbe fatto schifo, ma era anche vero che per dignità non l'avrei accettata.
    Quella facciata della casa che dava sull'ingresso aveva due porte d'entrata ai due estremi, mentre al centro c'era una veranda coperta, molto simile nel design e nel colore del legno al camminamento che avevo percorso, ma larga più del doppio. Era come una stanza più lunga che ampia con uno dei lati totalmente aperto verso lo spiazzo. Delle altre scalettine di legno portavano dal terreno al pavimento rialzato.
    Come ogni casa tradizionale, tutta la struttura si doveva trovare ad almeno mezzo metro da terra, ma in quel momento avrei voluto una casa moderna con ascensore, o al limite un montascale.
    Seduto al centro della sala, ma vicino al bordo per vedere lo spiazzo, era seduto un signore di mezza età che ricordavo essere il padrone di casa. Leggeva un rotolo di pergamena e un messaggero attendeva, inginocchiato, che questi finisse.
    «Ecco il nostro ospite» disse alzando lo sguardo dallo scritto e chinando il capo verso di me. «Prego, sali» mi disse accennando alle scalette con un gesto della mano.
    Come dire "prego, mangia la tua fetta di torta" o "prego, c'è un bagno caldo che ti aspetta"! Ero stufo di salire e scendere, e di camminare anche, viste le mie condizioni. Ma non potevo darlo a vedere quindi afferrai bene il mio bastone, mi armai di pazienza e feci quell'infernale paio di gradini.
    Nel frattempo l'uomo finì la sua lettura. «Fate accomodare quest'uomo. Ha viaggiato molto per portarmi questo messaggio di mio figlio» ordinò con garbo verso il domestico che mi aveva accompagnato. «Riposate qui e questo pomeriggio vi farò avere la mia risposta e un cavallo fresco» aggiunse verso il messaggero
    «Grazie infinite, Morikawa sama» rispose questi inchinandosi fino a toccare il tatami con la punta del naso.
    Io intanto ero arrivato in cima a quei pochi gradini e lì mi attendeva un'ulteriore prova, ma stavolta non avrei ceduto: io inginocchiato non potevo starci, mi ero salvato l'articolazione della gamba sinistra per miracolo, se volevano la mia rotula per giocarci a golf avrebbero dovuto dirlo prima di curarmi.
    Il messo si alzò e se ne andò accompagnato dal domestico, così io rimasi solo col padrone di casa (e una trentina di guerrieri che si allenavano davanti a noi). Per prima cosa pensai bene di inchinarmi. «Mi... dunque, mi scuserete, ma non credo di poter stare in ginocchio» cercai di dire, parlando lentamente e calibrando bene ogni parola
    «No, certo che no. Ho fatto preparare quei cuscini apposta» rispose Morikawa allungandosi per avvicinarli. «Siedi come preferisci e puoi usarli per distendere la gamba. Veramente avrei preferito sederci più comodi, ma mio figlio insiste che devo comportarmi come esige l'etichetta» spiegò con un sorriso benevolo
    «Grazie infinite» dissi per poi cominciare a trafficare con i cuscini e il bastone. Ormai stavo diventando pratico e non ci misi troppo ad accomodarmi in terra senza cadere di sedere. Piegai la gamba sana verso l'interno, come se avessi dovuto incrociarla, e la sinistra la lasciai distesa sui cuscini: nervi, tendini e legamenti ringraziarono per il sollievo.
    «Devi scusarmi se ti ho costretto a venire qui non appena ho saputo che potevi alzarti, non sono solito trattare così i miei pazienti, ma Toshinori non sarà convinto finchè non saprà chi teniamo in casa»
    «Toshinori?» ripetei soprappensiero
    «Il mio primogenito, quello che si sta allenando laggiù» me lo indicò e in quel momento ricordai che era uno dei due combattenti che avevo visto prima: per l'esattezza quello grande, grosso e forzuto.
    L'armadio a due ante non mi voleva in casa sua, com'ero fortunato!
    «Allora, Ninomiya sama. Posso sapere adesso da dove vieni e come mai sei qui?» fece Morikawa con un sospiro, raddrizzando la schiena.
    Com'è che nei quiz più importanti non c'è mai la possibilità di una domanda di riserva?

    Nel prossimo capitolo
    Avevo due possibilità di risposta. Oltre alla fuga intendo, ma non era plausibile: io zoppicavo e tra me e la porta d’uscita, unica breccia che io avessi visto nelle alte mura bianche che circondavano la casa, c’erano una trentina di uomini armati di spada da allenamento, abituati al combattimento e la maggior parte di loro doveva essere pluriomicida dato il periodo.

    «Lo hai sentito, Toshinori?» chiese Morikawa guardando alle mie spalle.
    L’uomo muscoloso che avevo visto battersi poco prima si era rimesso la parte superiore del kimono e rimaneva in piedi e in silenzioso ascolto con le braccia incrociate. Lui non aveva mai desiderato avermi in casa sua.
    «Gli credi?» domandò ancora il padre.

    Sgranai gli occhi: se c’era una cosa a cui non avevo minimamente pensato era cosa poteva essere successo nel mio tempo se io ero scomparso! Ero scomparso da settimane! Mi stavano ancora cercando?

    Voilà, per la lettura di... ehm... di... di Kateh! :pici:
    Marò che tristesSSa... :O_O: sto esperimento sta andando male mi sa. Chu...
    Vabbè farò ancora qualche capitolo, se continua a non funzionare vedrò se andare avanti >__<

    A parte tutto, nel capitolo ho deciso di usare il voi. Il giapponese di allora credo prevedesse parecchie formule di cortesia che io non conosco e che ovviamente non hanno alcun equivalente nella nostra lingua. Mi limiterò quindi a giocare sull'uso del voi -per quando si deve portare rispetto- e del tu -quando si parla tra pari o non c'è bisogno di parlare in maniera particolarmente rispettosa.

    Edited by hika86 - 14/6/2013, 11:56
     
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    bene, sono ufficialmente stordita! lo ammetto...mi ero persa l'aggiornamento. Scarico e stasera leggerò con calma!
    Uè autrice perchè ti disperi???? io sono parecchio così in questo periodo --> :relax2: ma non ti disperare!!!
     
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  10. hika86
     
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    *arraffa dolcino ignoto* grazie! Comunque non era il carro davanti ai buoi *mastica* siccome più vado avanti più sto complicando la trama (fermatemiiiii :pcpc:) ho deciso di fare attenzione se il genere può piacere o meno perchè altrimenti lascio perdere, non per altro ma perchè il tempo che ho tra studio, traduzioni e ogni tanto uscire o occuparmi della famiglia, è poco, quindi se spendo il mio tempo in qualcosa, per ora, dev'essere qualcosa per cui valga la pena! E' solo per questo XD
    CITAZIONE (kateh @ 2/4/2013, 23:07)
    mi piacciono un sacco le descrizioni dei posti, del luogo e ....del tempo...imparo nuove cose di cui non so quasi nulla ma che comuqnue mi affascinano
    [...]
    però ci sono stati dei punti dove incosciamente mi sembrava fosse il Nino stesso a parlare..cioè..piccole frasi che rispecchiano quello che secondo me Nino direbbe sul serio...

    Stavolta l'ho capito sì XD ahahahah! A volte, sì, pensi più velocemente di come scrivi!
    Fortuna che le descrizioni ti piacciono. Guarda che io ti penso sempre, tutte le volte che cerco di rendere un ambiente o un'atmosfera attraverso i suoni e i rumori mi dico sempre "chissà se a kateh piacerà" XD sei la mia tecnica del suono °_°
    Sì, il fatto di aver sbattuto Nino in una realtà diversa scombussola il possibile giudizio, è vero... ma sono contenta di queste parole :pici: mi tirano su il morale... grazieeeeeee!!!
    CITAZIONE (geena76 @ 3/4/2013, 14:00)
    Uè autrice perchè ti disperi???? io sono parecchio così in questo periodo --> :relax2: ma non ti disperare!!!

    Sì, sì :umpf: o so come stai messa (cioè male), tranquilla.
     
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    La mia primo ff che leggo...ho letto il prologo e devo dire che mi piace, adesso mi butto sul primo capitolo.
     
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  12. hika86
     
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    Ohddio la prima? O_O
    E ti butti su questo mio esperimento zoppicante? XD
    Adesso sì che sono tesa e comincio a sudare freddo °_°;;;;; :paura:
     
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    oh povero Nino è molto turbato, e Rie non l'ho aiuta molto...!!

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    Ohddio la prima? O_O
    E ti butti su questo mio esperimento zoppicante? XD

    Ma tanto io di Nino non so quasi nulla, quindi non ti preoccupare XD

    Edited by rockevy - 4/4/2013, 15:07
     
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  14. hika86
     
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    Beh, anche perchè Rie ne sa meno di lui XD
    CITAZIONE (rockevy @ 4/4/2013, 14:44) 
    Ma tanto io di Nino non so quasi nulla, quindi non ti preoccupare XD

    Oh... no beh, non è tanto per Nino in sè... è proprio per il contenuto della ff XD è un esperimento in toto, potrei fallire miseramente e se è la prima ff potrebbe farti una brutta impressione. Probabilmente se la ia prima ff fosse stata una ff sbagliata non mi sarei mai più avvicinata a questo mondo! E' una grossa responsabilità....
     
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    la pigna che cade
    lo scricchiolio del pavimento
    io ti amo
    il breve accenno a ritorno al futuro oooooooooh si stupendo *-*
    l'accuratezza
    waaaaa meraviglia
    sembro homer simpson quando pensa al cibo e il signor burns che dice "eccellente"

    continua! xD
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