ARASHIC - Arashi Forum - 嵐 フォーラム

Posts written by green <3

  1. .
    beh chi lo sa... stiamo a guardare😂😂
  2. .
    grazie socia😄😄😄
    qualcosa arriverá... non so quando, ma arriverá
  3. .
    arigatō 😘😘
  4. .
    Salve ragazze^_^
    Vi lascio questo piccolo spin off di Live again, non è niente di che, è solo una piccola one shot su Sho, ma spero vi piaccia ^_^

    Piccola nota: le parti in corsivo sono i pensieri di Sho.

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    Il battito delle ali di una farfalla in Brasile provoca un tornado in Texas.

    “La Prevedibilità” effetto farfalla Edward Lorenz
    1972 Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza a Washingto
    n D.C”


    In silenzio guardai la sua figura di spalle fare le valigie e andarsene per sempre da casa mia. Non avevo fatto niente per fermarla, non un gesto, non una parola, niente; semplicemente ero rimasto in silenzio… Come al solito.
    Perché non feci nulla?
    Uhm… Non lo so!
    Stavo male per quello che stava succedendo?
    No, assolutamente no.
    Allora non mi importava nulla di lei, non l’amavo, non provavo alcun sentimento per quella ragazza?
    … Non credo che l’amore c’entri qualcosa!
    Quindi… Perché stavo con lei?

    Già, perché stavo con lei, quella domanda negli ultimi tempi mi tormentava giorno e notte, mi teneva sveglio quando dovevo dormire e mi distraeva quando invece dovevo rimanere assolutamente concentrato.
    Anche quel giorno quella domanda fastidiosa vorticava nella mia testa creando solo scompiglio.
    Come ormai succedeva da giorni attesi perfettamente immobile il suono della sveglia, quell’adorato suono che ogni mattina mi dava la scusa perfetta per lasciare quel letto enorme che negli ultimi tempi sentivo troppo stretto, troppo piccolo per due persone.
    Com’eravamo arrivati a quel punto non lo so neanche io, eppure eravamo sempre andati d’accordo, fin dal primo momento, ma da quando si era “temporaneamente” trasferita a casa mia, perché la sua in fase di restauro, le cose erano decisamente cambiate.
    Tutte le cose che mi avevano fatto “innamorare” di lei erano improvvisamente sparite, la maschera che aveva indossato per circa un anno si era sgretolata come un castello di sabbia, rivelando così quel volto che per troppo tempo era stato coperto.
    La sua vera personalità si mostrò quella sera che segnò la nostra fine, ma anche il mio inizio.
    Io e lei ci siamo conosciuti così, per caso, lei lavorava nel bar cui ero solito frequentare quando le riunioni di News Zero diventavano troppo estenuanti per tornare a casa senza prima aver bevuto una birra.

    Quella ragazza aveva attirato la mia attenzione fin da subito e non parlo di aspetto fisico, certo era bella da mozzare il fiato in gola, i lineamenti sottili e delicati del viso sembravano essere disegnati, quei capelli lunghi e leggermente mossi alle punte le ricadevano morbidi e leggeri sulla schiena seguendo ogni suo movimento e quei suoi occhi neri, profondi come l’oscurità dell’oceano erano come una calamita per me, mi catturavano e non mi lasciavano più.
    Ma il suo modo di fare, di parlare, di muoversi mi aveva letteralmente colpito, spingendomi ad andare da lei ogni singola sera; avevo mentito anche a Masaki quella sera, gli avevo detto che dovevo lavorare e invece avevo un appuntamento con lei.
    Mi sedevo lì, al bacone, sempre al solito posto e sorseggiando quella birra con una lentezza fin troppo innaturale per me aspettavo la fine del suo turno, per poi salutarla e sparire nel nulla.
    Parlare con lei era facile, almeno lo era in quel periodo, quando una parola era sufficiente, quando bastava stare in silenzio per stare bene e quando un semplice sguardo diceva molte più cose delle nostre bocche.
    Stare con lei era semplice, forse un pò caotico per i miei gusti, ma pur sempre semplice.
    In fondo lei era un vulcano d’energie e io mi ero ritrovato coinvolto, inghiottito da quella lava di nome Haruka.

    Con la stessa facilità con cui era iniziata la nostra storia era anche finita.

    Il suono della sveglia ruppe il silenzio di quella stanza mettendo un freno anche ai miei pensieri, appena le mie orecchie captarono quell’adorato suono scivolai dal letto con la stessa lentezza di una tartaruga facendo attenzione a non svegliarla e, svegliarla era davvero l’ultima cosa che volevo.
    Nel silenzio assoluto iniziai a prepararmi per l’ennesima estenuante giornata di lavoro, da quando Masaki era stato male i nostri impegni si erano moltiplicati… i miei si erano triplicati; dovevamo coprire la sua assenza, dovevamo lavorare anche per lui e non era facile.
    Quel giorno la mia agenda scoppiava di impegni, fino alle 17.00 non avevo un minuto di riposo, era un caos di macchie di inchiostro, cancellature e appunti vari, avevo tremila cose da fare e come se non bastasse quella “pazza” della mia ragazza aveva deciso che quella sera, la prima libera dopo chissà quanto, dovevamo passarla insieme e come se non bastasse aveva sottoscritto la sua imposizioni mettendo mano alla mia agenda, alla mia adorata e intoccabile agenda.
    Sapeva benissimo quanto odio quando toccano le mie cose, soprattutto l’agenda, ma lei in preda a una delle sue tante crisi isteriche e complessi di inferiorità aveva deciso di scriverci sopra il suo nome a caratteri cubitali coprendo tutte le altre scritte, scatenando così la mia rabbia che ci aveva portato a litigare quella sera.

    Conclusione della lite… lei in lacrime e io in silenzio a fissarla con la sguardo colmo di pietà; in quel momento solo pietà riuscivo a provare.

    Tutte le nostre liti finivano così, non si arrivava mai ad una conclusione, l’ombra di un chiarimento era lontana anni luce da noi e il rancore che provavamo l’uno per l’altro cresceva sempre di più, ad ogni parola, ad ogni gesto spazzando via ogni sentimento positivo che provavamo.

    Quella sera, quella lite che credevo come tutte le altre in realtà si rivelò l’esatto contrario.

    “Come stanno andando le prove?” mi chiese con quel suo sguardo così curioso da farlo sembrare un bambino di due anni.
    Non feci in tempo a rispondere, la suoneria del mio cellulare si frappose fra me e Masaki, mettendo fine al nostro discorso.
    Tirai fuori il telefono dalla tasca e il solo leggere il suo nome sul display mi diede ai nervi, perché doveva mettersi sempre in mezzo a me e a Masaki?

    Devo ammetterlo, l’idea di chiuderle il telefono in faccia aveva accarezzato il mio cervello per un secondo, ma il solo pensiero delle conseguenze fece scorrere automaticamente il mio dito sul display.

    “Si?” risposi allontanandomi da lui.
    “Dove sei?”
    Quel tono arrogante mi fece per un attimo tentennare sulle parole che volevo realmente dire, “all’ospedale, da Masaki”.
    “E io?”
    “Ora non posso venire” risposi alzando di qualche ottavo la mia voce.
    Non rispose, senza neanche salutare mi chiuse il telefono in faccia, lo strinsi un attimo fra le mani e respirando a pieni polmoni mandai via la rabbia, provocata dalla sua voce, che avevo sentito salire lungo tutto il mio corpo.

    “Se hai da fare puoi andare” mi disse.
    “Ma no tranquillo era solo mia madre” gli risposi avvicinandomi di nuovo a lui, prima che un leggero toc-toc ci fece sobbalzare.
    “Chi è?” chiese preoccupato.
    Il motivo della sua preoccupazione mi è sconosciuto ancora oggi.
    “Masaki sono io, Lily”.
    A quelle parole lo vidi bloccarsi, ogni muscolo del suo corpo si irrigidì in modo alquanto preoccupante, apriva a chiudeva la bocca senza emettere alcun suono e i suoi occhi mi stavano letteralmente perforando il cranio; mi guardava in attesa che io facessi qualcosa.
    “Entra” le dissi aprendo la porta.
    “Ehm torno più tardi” disse in imbarazzo appena mi vide.
    “No tranquilla, me ne stavo andando” risposi raccogliendo le mie cose che avevo sparpagliato in giro per la stanza, “Masa ci sentiamo” aggiunsi prima di uscire dalla sua camera con la stessa velocità di un proiettile calibro 9.

    Quella decisamente non era la mia serata ideale, Masaki mi aveva dato la scusa adatta per tenere il mio corpo lontano da quella casa, ma appena avevo visto gli occhi di quella ragazza guardarlo con lo stesso “bisogno” con cui di solito lo guardo io, le parole mi erano uscite di bocca prima che potessi pensarle e, ora mi ritrovavo a girovagare a vuoto nei corridoi di un ospedale.

    Okay, forse un pò lo stavo usando in quel momento e a dire la verità quando avevo visto la sua chiamata il mio cuore aveva cominciato a fare i doppi backflip e il mio cervello aveva ricreato una simulazione perfetta della sua voce che mi chiedeva di andare da lui, ma quando l’avevo sentito piangere disperato avevo capito che c’era qualcosa che non andava e nel momento in cui mi mostrò la sua paura mi resi conto di provare paura anch’io; paura per lui.

    “L’uscita è dall’altra parte” disse qualcuno alle mie spalle.
    Mi voltai verso quella voce, la fissai un pò stranito, non riuscivo a capire chi fosse la figura seduta a fissare la luna.
    “L’uscita è dall’altra parte” ripeté spostando lo sguardo su di me.
    Appena incontrai i suoi occhi la riconobbi immediatamente e, non perché avevo riconosciuto il suo viso, ma perché quegli occhi mi provocarono esattamente le stesse sensazioni che provai quando la vidi per la prima volta; ho sempre avuto un debole per gli occhi scuri e i suoi erano neri come la pece.
    “Allyson?” chiesi avvicinandomi, “che ci fai qui?”
    “Ti facevo più perspicace Sakurai-san” rispose prendendomi in giro, “ci lavoro”.
    Avvampai, divenni più rosso di un pomodoro maturo, “si eh-ehm… lo so, in-intendevo qui…” balbettai guardandomi intorno, “qui seduta”.
    “Sto tenendo d’occhio Lily, senza che lei se ne accorga ovviamente” disse con fin troppa sincerità.
    “Cioè?” chiesi incuriosito.
    Puntò il dito davanti a se, lo seguì un pò confuso, “non capisco” ammisi.
    “Da quest’ala dell’ospedale si vede la finestra della camera di Aiba-san”.
    Finalmente capì, quello che guardava non era la luna, ma quel sottile spiraglio di luce che illuminava la camera di Masaki.
    Ritornai a guardarla e solo allora mi resi conto della preoccupazione che riempiva i suoi occhi, della paura, del terrore che velava il suo viso e dell’agitazione con il quale continuava a tormentarsi le mani.
    “Sta tranquilla, Masaki non permetterà che le succeda qualcosa” dissi senza riflettere sedendomi accanto a lei; cosa più stupida non potevo dire e lei ovviamente sottolineò il mio errore.
    “Da quando Aiba-san ha il potere di guarire le persone dal cancro” mi fece notare con una punta di disprezzo nella voce.
    “Non intendevo questo” risposi.
    “E cosa intendevi Sakurai-san?” ribatté prima che potessi aggiungere altro, “questi non sono affari vostri e Lily di certo non ha bisogno di preoccuparsi di lui”.
    La guardai per un attimo, in quel momento l’avrei mandata seriamente a quel paese, parlava con così tanta convinzione da darmi ai nervi, sembrava “la signorina so tutto io, so fare tutto io”.

    La presunzione con cui aveva detto quelle parole non la sopportavo.

    Come lei anch’io sono sempre stato un tipo razionale, ho sempre valutato i pro e i contro di qualsiasi situazione, ma non ho mai imposto a nessuno il mio pensiero e il modo con cui lei cercava di imporre a Masaki il suo volere non lo sopportavo.

    In quel momento la sua arroganza fece persino sparire l’immagine di Haruka con un forcone in mano ad attendere il mio ritorno a casa per farmi il cazziatone del secolo; per colpa delle sua arroganza desideravo tornare a casa il prima possibile.

    Stavo per alzarmi quando vidi un leggero luccichio fare capolino e accarezzarle il viso, scendere giù lungo la sua guancia e spezzarsi al contatto delle sue dita.

    “Sono una sciocca” sussurrò, “una stupida”.
    “Non credo che tu sia stupida” risposi stringendo i pugni, uno strano formicolio pizzicava le mie dita, nel momento in cui avevo visto quelle lacrime danzare lente sul suo viso avevo provato un irrefrenabile voglia di toccarle, di sentire sulle mie dita quel calore umido e salato, di catturare nella mia bocca il gusto delle sue lacrime e di percepirne la sua essenza; ma come al solito mi bloccai, quello non era decisamente il caso, il momento e il luogo in cui dare libero sfogo alle mie voglie.
    “Sei preoccupata” dissi solo dopo aver ripreso il controllo del mio corpo, “è normale, qualsiasi persona al tuo posto lo sarebbe”.
    “Ho paura” ammise dopo qualche minuto di silenzio, “non posso rischiare di perderla Sakurai-san, ma lei sembra non capire la situazione in cui si trova, sottovaluta la sua salute e quella lista è la prova della sua incoscienza”.
    “Non credo sia così, quella lista è semplicemente una via di fuga dalla paura e Masaki è il mezzo con il quale scappare. In un attimo ha visto la sua intera vita sgretolarsi, i suoi sogni sono scoppiati come una bolla di sapone e tutto intorno a lei è diventato grigio” le dissi e, mentre pronunciavo quelle parole sentivo qualcosa di familiare in tutta quella situazione.

    Provai qualcosa di molto simile al déjà-vu, quelle stesse parole le avevo già dette in passato per dare coraggio a qualcuno che in quel momento stava vedendo il suo mondo crollare, prendere fuoco e bruciare fino a distruggere qualsiasi cosa, lasciando solo cenere; quelle stesse parole le avevo dette ai miei compagni tanti anni fa quando ci eravamo trovati per la prima volta ad affrontare la malattia di Masaki e la sua cocciutaggine a sottovalutare la sua salute così tanto fino ad arrivare al punto del non ritorno, fino ad arrivare al punto di svenire davanti a tutti quanti noi.

    *“Quando Masaki è stato male la prima volta abbiamo cercato in tutti i modi di farlo sorridere, era davvero spaventato, ma tutto quello che facevamo sembrava non funzionare, niente andava bene. Lui non sorrideva più come prima e noi eravamo pietrificati così tanto dalla paura da prendere le decisioni al posto suo, decidevamo noi se una cosa poteva farla oppure no; ci siamo comportati da egoisti con lui. In qualche modo cercavamo di proteggerlo da se stesso e lui non ha mai detto nulla, ha sempre accettato le nostre imposizioni, non ci ha mai fatto pesare niente, almeno non volontariamente, ma quei sorrisi che ci mostrava erano falsi, quello che vedevamo non era più il nostro Masaki, ma solo qualcuno che noi stavamo plasmando con le nostre mani, un essere vuoto, privo di quel calore che possiede solo lui. E, sai quando ci siamo resi conto del nostro errore? Quando gli vedemmo fare quello che noi gli avevamo vietato. Quando un giorno durante le prove gli vedemmo prendere l’armonica, suonare e riempire la sala con quella melodia un pò stonata ma al tempo stesso dolce perché colorata da quel sorriso che per mesi l’aveva abbandonato. Masaki lavorando ha affrontato le sue paure e noi vedendolo dare sempre il massimo abbiamo ricostruito il nostro mondo che era andato in cenere”.
    “Non serve a nulla imporle il mio volere, vero?” chiese, aveva ascoltato il mio discorso in silenzio, senza mai interrompermi.
    “Devi affrontare le tue paure Allyson” le risposi, “devi fidarti di lei, solo così potrai aiutarla”.

    Non disse più niente e io nemmeno, rimasi un pò con lei a fissare quella finestra, pensando a quanto ero ipocrita, a quanto ero bravo a dispensare consigli agli altri e a quanto ero idiota per non riuscire a seguire quelle parole.

    Mi sentivo un dannato stupido, perché non riuscivo ad essere come Masaki?
    Perché non potevo avere la sua stessa determinazione?
    Perché non potevo semplicemente fare le cose senza pensare ogni maledetta volta alle conseguenza?
    Lo invidiavo, lo invidiavo per la facilità con il quale aveva deciso di caricarsi quel peso sulle proprie spalle, lo invidiavo per come era riuscito a trovare il modo di sorridere di fronte a quella situazione che di divertente non aveva niente, lo invidiavo per come riusciva a ridere delle difficoltà e per come ne traeva forza… lo invidiavo.
    Ero dannatamente invidioso del mio migliore amico, solo perché lui riusciva a non razionalizzare la paura e ad essere sempre se stesso.
    Per una volta anch’io volevo essere semplice come lui.
    “Vai via?” mi chiese.
    Mi ero alzato senza rendermene conto, risposi con un cenno della testa incapace di parlare, incapace di dar voce ai miei pensieri… “sì, vado ad affrontare la mia paura”.
    “Grazie” disse.
    Quella parola scatenò qualcosa dentro di me, non era certo la prima volta che la sentivo, ma non so perché nel sentirla sentì una sorta di calore intorno al petto; oddio forse stavo male, visto che c’ero potevo farmi dare una controllatina.
    PAZIENTE: Sakurai Sho
    CAUSA DEL RICOVERO: il suo cuore da Grinch ha ripreso a battere.
    DIAGNOSI: il calore di una parola ha sciolto il ghiaccio che lo circondava.
    Scossi leggermente il capo, mandando via quei pensieri, “non ho fatto niente” le dissi, “ma se hai bisogno di sfogarti questo è il mio numero” aggiunsi porgendole un bigliettino, “puoi chiamarmi a qualsiasi orario”; quella in assoluto fu la prima volta in cui feci qualcosa senza prima averla psicanalizzata.
    Le sorrisi e di fretta andai verso l’uscita, sì, ce la potevo fare, forse sarei riuscito a sopravvivere all’ennesima lite con Haruka, all’ennesima discussione che mi aspettava a casa pronta a darmi il benvenuto.
    Parcheggiai nel vialetto, era tardi, mi ero trattenuto un pò troppo allungo, ma ero fiducioso, speravo che la mia spiegazione l’avrebbe fatta calmare e, forse se mi avrebbe dato il tempo di parlare prima di saltare alle conclusione ci saremmo evitati una discussione inutile.

    Se, sogna Sakurai, sogna.

    Quando entrai, tutta la casa era piombata nel buio totale, mi trascinai in cucina, presi una birra dal frigo e voltandomi notai la cena, perfettamente intatta sul tavolo; okay ora mi sentivo un verme.

    “Dove sei stato?”

    Perfetto, la sensazione di viscido animaletto invertebrato sparì dal mio corpo appena sentì quella domanda.

    “In ospedale, te l’ho detto anche al telefono, Masaki aveva bisogno di me”.
    “Masaki, Masaki, sempre Masaki!” disse pronunciando quel nome con disprezzo.
    “Si sempre Masaki, ma anche Kazu, Satoshi e Jun… Sempre Arashi!”

    La lite aveva preso la solita direzione, aveva imboccato quella via che ormai sapeva a memoria.

    “E io? Sho quando ci sarò anch’io?”
    “Non ricominciare con i tuoi complessi di inferiorità, lo sai che non faccio differenze”

    Si va bene, è una frase fatta, una frase di circostanza, ma veramente non facevo differenze o meglio non l’avevo fatte fin quando non si era trasferita a casa mia e aveva cominciato con quell’assurda storia…

    “O me o gli Arashi, Sho!”

    Ecco, proprio questa.

    La guardai senza rispondere, come al solito a quella domanda la mia risposta era il silenzio e non perché non sapevo cosa dire, ma perché trovavo inutile quella domanda e invece di rispondere, “gli Arashi sono il mio lavoro, tu sei la persona con cui voglio stare”, rispondevo semplicemente con il mio silenzio.

    Ne sono consapevole se avessi risposto a quella domanda fin dal principio mi sarei risparmiato un mucchio di discussioni inutili.

    E mentre mi sedevo sul divano in attesa del suo solito sproloquio avvenne qualcosa che non avevo previsto, qualcosa di diverso dalle altre volte, qualcosa che rese quella lite l’ultima.

    “Me ne vado” disse soltanto prima di sparire su per le scale.

    La segui sempre in un silenzio tombale e la guardai fare le valigie, spingerle giù fino alla porta, lasciare le chiavi nel piattino sul tavolino basso accanto alla porta e uscire per sempre da quella casa, ma anche dalla mia vita.

    Era finita con la stessa velocità e semplicità con il quale era iniziata.

    Haruka divenne solo un piccolo tassello di quel puzzle che era diventata la mia vita, andando ad occupare un posto irrilevante nel mio cuore.

    Forse non aveva mai significato nulla o forse come al solito avevo cercato di psicanalizzare la situazione e avevo tratto le mie conclusioni.

    Haruka : Problemi = Solitudine : Libertà
    RISULTATO ESTREMI = ZERO PROBLEMI

    Haruka se n’era andata e insieme a lei tutti i miei dubbi, tutti i miei problemi e tutte le mie preoccupazioni.

    No, aspetta… ora avevo un’altra preoccupazione, Masaki.

    Si, okay una parte del mio cervello è sempre in modalità “allerta Masaki”, ma questa volta era diverso.

    Questa volta lui era perfettamente consapevole del guaio in cui si stava cacciando e, farlo ragionare non serviva a niente.
    Certo ci avevo provato sia quel giorno in ospedale, sia quando finalmente venne dimesso e tutto allegro, o forse ubriaco, mi aveva detto che Allyson aveva deciso di aiutarlo a realizzare i desideri di Lily, cosa che sapevo già perché me l’aveva detto Allyson stessa.

    Da quel giorno ci sentivamo spesso, sempre tramite messaggi, rare volte l’avevo chiamata e lo stesso aveva fatto lei.

    Gli argomenti dei nostri discorsi notturni erano principalmente Lily e Masaki, ma alcune volte ero riuscito a farla parlare, a farla uscire dal suo guscio e a farmi raccontare qualcosa della sua vita.

    “E perché hai smesso?”
    “Perché pecco di fantasia, una mangaka che non ha una storia non va da nessuna parte e io voglio disegnare solo cose mie, anche se questo non mi porta da nessuna parte”.

    Con quelle parole capì la sua determinazione e per certi versi mi ricordò il me stesso ventenne incapace di scrivere rime, ma che si vantava di saper rappare.
    Il vero rapper è colui che compone le proprio rime, non chi canta versi scritti da altri. Questa consapevolezza mi aveva fatto capire quanto ero lontano dall’essere un rapper professionista, ma mi aveva dato anche la voglia di afferrare quel sogno con entrambe le mani e farlo mio.

    Ho provato, ho sbagliato, ho fallito miseramente, mi sono rialzato, ho studiato, ho imparato dagli altri, ho avuto successo.

    E lei aveva fatto esattamente come me, la consapevolezza dei propri limiti l’aveva portata a guardare oltre il suo orizzonte facendole capire quello per il quale era portata.

    “Voglio far sorridere le persone nei loro momenti peggiori. Voglio essere d’aiuto a qualcuno, per una volta voglio sentirmi utile e indispensabile”.


    Mi aveva risposto così quando le avevo chiesto perché voleva diventare infermiera, ma non le avevo capite quelle parole.

    Forse perché sono ottuso o forse perché lei per me in quel momento era diventata indispensabile.

    Senza neanche rendermene conto lei era diventata importante per me, ma non riuscivo a dirglielo.

    Parlavo con lei, come non avevo mai parlato con nessuno, con facilità riuscivo a raccontarle le mie giornate di lavoro, i miei dubbi e le mie preoccupazioni e insieme riuscivamo a risolverle, ma quello che volevo realmente dirle rimaneva sempre una frase in sospeso, bloccata nella mia bocca.

    Era una semplice amica?
    No, non era un amica.

    Di una semplice amica si può fare a meno, non si sente la necessità di stare sempre con lei, di sentire quella voce accarezzare dolcemente il tuo udito, entrarti dentro scuoterti l’anima e provocarti un dolore lacerante al petto.

    Però quel dolore non fa male è stranamente piacevole, ti riscalda, è come una dolce carezza provocata da un leggero venticello, è come il silenzio assordante che provoca la caduta di un fiore, è come una droga, ma legale.

    Ne diventi dipendente e non riesci più a farne a meno.

    Il desiderio di quella dose quotidiana diventa sempre più forte e ne vuoi sempre di più, ma senti che non ti basta mai, non è mai sufficiente a colmare quell’astinenza che ti consuma da dentro.

    E io mi sentivo esattamente così, forse ero diventato paranoico, forse ero malato, ma io mi sentivo in un totale stato confusionale da non riuscire più a pensare razionalmente alla mia vita, non riuscivo più a prendere in considerazione i pro e i contro.

    Le mie psicanalisi erano improvvisamente sparite e la colpa era di Allyson.

    Lei aveva fatto sparire il mio lato razionale, ma come l’aveva fatto sparire l’aveva fatto anche tornare.

    Io e lei non abbiamo mai superato la soglia dell’amicizia, lei troppo impegnata a preoccuparsi per gli altri per ammettere i suoi sentimenti per me e io troppo impegnato a trovare le parole esatte per dar voce a quei sentimenti.

    Certo, con lei ero riuscito a non essere così maniacale, ma dar voce a ogni singolo pensiero che si formava nella mia testa era ancora difficile; e non ci riuscì neanche quel giorno.

    “Devo parlarti?”
    “Se lo dici con questa serietà mi preoccupo” risposi cercando di tenere a freno l’ansia.
    “Vado in America, a Seattle”.

    I miei occhi si aprirono così tanto da superare il livello di apertura oculare riconosciuta da qualsiasi legge delle fisica.

    “Cosa?”
    “Ecco Lily ha deciso di fare una cura palliativa e io voglio passare con lei gli ultimi istanti della sua vita”
    “Perciò ritornerai?”
    “No, continuerò i miei studi lì, starò con mia mamma. Dopo il divorzio dei miei lei è ritornata in America e io sono rimasta qui in Giappone, ma ora non ho più niente che mi lega qui”.
    “Hai me Allyson” … “Si capisco, quando parti?”
    “Domani mattina, l’aereo è alle 6”.
    "Domani?! E me lo dici solo ora, ora che non posso fare niente. Quando sono bloccato in tour dall’altra parte del Giappone” … “Fai buon viaggio allora”.
    “Sho… abbi cura di te”
    “Come faccio? Come posso stare bene quando sento il cuore congelarsi, quando fa così male da togliermi il respiro?” … “Sta tranquilla, fa del tuo meglio e saluta Lily da parte nostra”.
    “Sho?”
    “Si”
    “Non dire niente a Masaki, della scelta di Lily intendo”.
    “Come puoi chiedermi di mentire? Come puoi torturarmi con la tua partenza, punirmi con la tua assenza e chiedermi anche di mentire al mio migliore amico?” … “Tranquilla, immagino che Lily non vuole farlo preoccupare”.
    “Si, esatto, nonostante tutto continua a preoccuparsi per lui”.
    “Perché non puoi fare lo stesso anche tu? Perché mi uccidi con la tua indifferenza? Perché non capisci che ti sto mentendo? Voglio che rimani in Giappone, con me” … “Beh… allora buon viaggio”.
    “Ciao Sho… ehm…”
    “No, non andartene, non dire quella parola”.
    “Addio Sho!”
    “…” … “Ciao Allyson!”

    Silenzio, non sentivo più nulla, il mio telefono era morto, il mio cervello si era scollegato e il mio cuore non batteva più.

    In silenzio, senza dire una parola avevo permesso che lei andasse via dalla mia vita.

    Perché non feci nulla?
    Non lo so!
    Stavo male per quello che stava succedendo?
    No… Si, stavo da schifo.
    Allora mi importava di lei, l’amavo, provavo un sentimento per quella ragazza?
    … Si maledizione sì.
    Quindi… Perché non avevo fatto niente per impedirle di andarsene?


    -2 anni dopo-

    “Sho?”
    “Si”
    “Sono Allyson, dovrei parlarti, di persona”.
    “Sei tornata?”
    “Si, ma solo per qualche giorno”
    “Ah… possiamo vederci a casa mia”.
    “Pensavo a un posto all’aperto, un posto tranquillo”.
    “Il parco dietro casa mia, non c’è mai nessuno”.
    “Bene ci vediamo lì”.
    “A dopo”.

    Era lei, era tornata, ma qualcosa mi diceva che non dovevo esultare per quell’incontro, non dovevo essere così contento di rivederla, eppure non riuscivo a togliermi dalla faccia quel sorriso da ebete che aveva deciso di piazzare le tende sul mio viso; non andò via nemmeno quando mi diede quella notizia.

    “Come mai sei tornata?” le chiesi.
    “Devo fare una cosa per Lily, devo realizzare il suo ultimo desiderio” rispose con voce strozzata.
    Non ci fu bisogno di chiedere spiegazioni, avevo capito tutto, Lily era morta e Masaki sarebbe “morto” fra qualche istante appena il nostro incontro si sarebbe concluso.
    “Sho… ecco…”
    “È successo qualcosa?” chiesi preoccupato dalla sua titubanza.
    “No, cioè sì, ma è una cosa felice”
    “Allora perché è così difficile da dire?”
    “Perché sei tu Sho”.
    "Si, sono lo stesso Sho che hai lascato qui in Giappone e che ti sta aspettando da due anni” … “Tranquilla, prenditi il tuo tempo”
    “Sho, io sto per …”
    “Non dirla, non dire quella parola, non posso sopportarla” … “Per?” la incitai.
    “Per sposarmi”

    Silenzio, la fissai in silenzio con un sorriso da ebete stampato sul volto, mentre dentro di me urlavo disperato.

    “Sono contento” fu l’unica cosa che riuscì a dirle.
    “Si, anch’io sono felice. Scusami, ora devo andare da Masaki”.
    “D’accordo” risposi continuando a guardarla sorridente, faceva male, dio quando facevano male quelle urla disperate che sentivo solo io.
    Si allontanò, ma prima di andarsene si voltò un ultima volta verso di me, “Sho?”
    “Si?”
    “Mi fai una promessa?”
    La guardai confuso, “se posso”
    “Non intrappolare i tuoi sentimenti sotto una campana di vetro. Permetti alle persone di guardare oltre quella maschera di persona gelida, impostata e priva di sentimenti che ti sei cucito addosso”.
    “Che vuoi dire, i-io…”
    “Sho promettimi che la prossima volta che incontrerai una persona che ti piace glielo dirai” disse interrompendomi.
    Non ascoltò la mia risposta, di corsa se ne andò dalla mia vita con la stessa velocità col quale c’era entrata.

    -EPILOGO-

    - “Sho vai ad aprire tu” mi ordinò quel nano malefico.
    “Devo fare tutto io” protestai andando ad aprire, okay potevo rifiutare, ma non avevo voglia di discutere con quel nanerottolo di Kazu.

    Aprì svogliatamente e mi trovai di fronte due occhi castani, profondi, così profondi da perdersi in quel manto scuro, in quell’oblio senza fondo che mi aveva intrappolato.

    Mi aveva stregato con i suoi occhi, ammaliato con il suo viso, legato a lei con quell’espressione confusa e dolce allo stesso tempo; ero completamente in balia di quella ragazza dal tipico aspetto mediterraneo, dalla pelle bronzea messa in risalto dal colore di quella camicia azzurra che le fasciava il fisico asciutto e slanciato, lo stesso colore di quel ferrettino che addobbava armoniosamente i capelli lunghi fino alle spalle.

    Io la guardavo rapito, lei mi guardava spaesata, confusa, sbatteva le palpebre incredula dalla figura che aveva di fronte.

    Il battito d’ali di una farfalla in Brasile provoca un tornado in Texas… lei aveva provocato un tornado dentro di me.

    E in quel momento la cosa più stupida del mondo uscì dalla mia bocca con estrema facilità, abbattendo tutte le mie mura.

    “Vedi Jun, anch’io rompo le ragazze!”

    *Questo è solo un mio pensiero, è così che li vedo.


    Edited by Shin Hiroki - 24/10/2016, 18:02
  5. .
    mi fa piacere che ti sia piaciuta😉😉😉
  6. .
    arigatō socia😙😙😙😙
  7. .
    E bene si... fra trecento dubbi e paranoie sono riuscita a finirla... non è stato facile, ma credo di avercela fatta u.u
    ringrazio tutti quelli che l'hanno letta, a Sonia, MamyKy e Reira per aver commentato, per essere sempre state presenti e per
    avermi supportato... Arigatou! :*

    gli ultimi tre capitoli ve li lascio uno dietro l'altro ^_^
    8.2

    Una paura travolgente, un dolore paralizzante mentre sul mio viso si diffondeva l’inconfondibile odore del sangue.

    Mi liberai da quel maledetto tubicino che tanto odiavo e lentamente mi avvicinai al parapetto, per poi arrampicarmi alla ringhiera e sporgermi il più possibile.
    Un vento freddo mi accarezzò dolcemente il viso, non era fastidioso anzi era stranamente piacevole e sulla mia pelle gelata sembrava quasi caldo. Allungai le braccia, dolcemente abbandonai la testa all’indietro e chiudendo gli occhi lasciai che quel vento mi colpisse in pieno.

    Ogni centimetro del mio corpo era toccato da un enorme e delicata carezza, da un leggero soffio che aveva catturato la mia anima trasportandola lontano dal mio stesso corpo, librandosi in aria, volando via cavalcando quel vento che mi aveva liberato.
    Sotto di me il profilo di Tokyo si estendeva indisturbato, infinito, colorato da luci brillanti e circondato da rumori che in quel momento mi sembravano i suoni più belli che avessi mai sentito; il cuore pulsante del Giappone aveva letteralmente preso vita davanti ai miei occhi, mentre il mio corpo si faceva sempre più pesante, paralizzato da un dolore inaspettato, troppo forte perché potessi controllarlo, troppo spaventoso perché potessi fermarlo.

    Il gusto amaro del sangue si fece lentamente largo, risalendo lungo la mia gola e riempiendomi la bocca. Le luci di Tokyo divennero un'unica macchia di colore e i suoni intorno a me si fecero sempre più lontani, sempre più irraggiungibili fino a sparire completamente per lasciare posto a una voce disperata che continuava a chiamare il mio nome a ripeterlo all’infinito come se fosse un mantra.

    Due braccia sottili, ma forti mi avevano afferrata impedendomi così di finire a terra, mi aggrappai con tutte le mie forze a quel calore che lentamente sentivo fuggire dalle mie mani.

    “Kazu prendi Stewart!” sentì urlare.
    “Chi è Stewart?”
    Ma non ricevette risposta, il mio sole, la mia personale fonte di calore che in quel momento mi stava impedendo di perdere completamente i sensi aveva cominciato a correre sempre più veloce giù per le scale, spinto da chissà quale forza.

    “Non permetterò che ti succeda qualcosa” continuava a ripetermi per infondermi un pò di coraggio, per scacciare via quella paura che mi aveva riempito gli occhi.

    Avrei voluto parlare, rispondere a quelle parole, ma non ci riuscivo, ogni volta che aprivo bocca sentivo quel liquido rosso scivolarmi sul viso, macchiare la mia pelle e anche la sua.

    Sentì le forze abbandonare lentamente il mio corpo, dandomi così il tempo di comprendere quello che stava succedendo intorno a me, di realizzare quella verità maledettamente dolorosa da sopportare, da capire e da giustificare.

    Un bip-bip fastidioso mi svegliò, il mio corpo era percorso da un leggero formicolio, come se si fosse appena destato da un lungo sonno.
    Mossi leggermente le dita, ma sembravano non rispondere ai miei comandi, qualcosa di caldo, morbido e leggero impediva qualsiasi mio movimento.

    “M-Masaki” sussurrai, ma nella mascherina quel nome risuonò come un suono incomprensibile per chiunque, ma non per lui.

    Alzò lentamente la testa, il suo viso era pallido, stanco e suoi occhi circondati da profonde occhiaie, sembrava non dormire da giorni.

    Per quanto tempo era rimasto lì, a vegliare su di me, sul mio sonno stringendomi la mano in quella morsa calda che la mia pelle aveva riconosciuto immediatamente, come se il suo calore fosse rimasto impresso dentro di me marchiando la mia pelle a fuoco, creando una memoria tutta sua, una memoria tattile che avrebbe riconosciuto quel contatto ovunque e in qualsiasi tempo.

    Si allungo verso di me per premere il pulsante d’emergenza e, solo in quel momento notai un leggero rossore all’angolo destro della sua bocca.
    “Che hai fatto?” gli chiesi, ma non rispose e senza neanche guardarmi prese le sue cose per poi uscire dalla mia stanza.
    Lo guardai confusa… che gli prende?
    Perché si comporta così?
    Perché fa finta che non esisto?
    Perché è rimasto accanto a me per poi ignorarmi completamente?

    Mi liberai dalla mascherina e da tutti quei fili e tubicini che mi costringevano a letto e mi alzai, dovevo parlargli, capire il perché di quel suo strano atteggiamento.

    Perché la mia vita mi stava ignorando?

    Titubante arrivai fino alla porta, mi sentivo le gambe molli, sembravano fatte di pasta frolla.

    “Allyson spostati” ansimai come se quell’unico movimento che avevo fatto avesse prosciugato tutte le mie energie.
    Mi prese dal braccio e contrariamente da quello che mi aspettavo mi riportò a letto.
    “Che fai, lasciami devo andare da lui” le dissi, ma anche questa volta non rispose. “Si può sapere che vi prende?” chiesi incredula da quell’atteggiamento.
    “Non è questo il momento di correre dietro a Masaki Lily” disse solamente prima che il Dottor Kitamura, seguito a ruota dai miei genitori, entrò nella mia stanza.
    “Ti sei svegliata” disse avvicinandosi al mio letto e puntandomi una lucina bianca negli occhi. “Segni vitali?” chiese voltandosi verso Allyson.
    “Al momento stabili”.
    “Sto bene okay, ora mi lasciate andare per favore!” sbottai.
    Quella che doveva suonare come una domanda divenne un improvvisa esclamazione di rabbia, provocata dai loro modi iperprotettivi e dalle loro espressioni rigide come se stessero nascondendo qualcosa.

    … E in effetti nascondevano qualcosa, qualcosa di spaventoso che io forse non avrei voluto sapere.

    “Non possiamo più procedere con l’operazione” mi disse, ma io non lo seguivo, la mia attenzione si era improvvisamente bloccata, le mie orecchie non captavano più alcun suono, il mio cervello non comprendeva più le parole che mi venivano dette e i miei occhi non guardavano nient’altro se non quella lastra illuminata da quella luce al neon.

    “Per il momento ricomincerai di nuovo con la chemioterapia alternata alla radioterapia”.
    “Non capisco” dissi finalmente, “lei aveva detto che…” non riuscì a continuare, i singhiozzi di mia mamma stretta fra le braccia di mio padre mi impedirono di continuare il mio discorso.
    Li guardai per un attimo, ma bastò quell’attimo per farmi rendere conto di quello che stava succedendo.

    Quella calma apparente, quelle due settimane di benessere erano solo una tregua momentanea che Bob mi aveva concesso.
    In silenzio avevo covato dentro di me, generando qualcosa di orribile, strisciando lungo tutto il mio corpo, macchiandolo con la sua ombra e indisturbato espandersi sempre di più, allargandosi dentro di me come una nuvola di fumo nell’aria.

    Tutto era solo un effimera illusione.

    Tutto stava lentamente scivolando via dalle mie mani…

    … Tutto era diventato improvvisamente il nulla.

    Non c’era più niente, non esistevano certezze, non esistevano parole, non esisteva una cura contro quel dolore lacerante che provavo, giorno dopo giorno, sempre più forte e insopportabile fino a farmi desiderare la morte pur di non sentire più nulla, pur di stare finalmente bene.
    Ma in tutta quell’oscurità un angolino del mio cuore custodiva ancora quella piccola luce che ormai non vedevo da settimane, da mesi, che era improvvisamente sparita dalla mia vita lasciando solo un lieve bagliore al quale io mi ero aggrappata trovando la forza di continuare, di andare avanti ancora e ancora.

    Si, il pensiero di Masaki mi dava la forza di continuare a lottare, di non cedere, di continuare a scavalcare chissà quanti altri muri, di inciampare ancora una volta e di rialzarmi sempre più forte, ma mai abbastanza, perché lui non era con me.

    Masaki era sparito dalla mia vita, per qualche assurda ragione che io non capivo lui non voleva più avere niente a che fare con me, quello infatti fu l’ultimo giorno che lo vidi, in silenzio se ne era andato, portando via con se qualcosa di mio che ormai si era legato indissolubilmente a lui.

    “Ne, Allyson?” la chiamai svegliandomi, “gli ho fatto forse qualcosa?”
    “Che vuoi dire?” chiese confusa.
    “Perché non vuole parlarmi, perché è sparito così, io ho bisogno di lui”.
    “Non pensarci” rispose secca.

    Risposi con un cenno della testa per poi voltarmi dall’altro lato, mentre sentivo le lacrime pungermi negli occhi.

    “Non pensarci” continuavano a dirmi, come se quella fosse la cosa più facile da fare, certo per loro magari lo era, ma per me era l’inferno.

    Come facevo a non pensare all’unica fonte di felicità che mi era rimasta.

    Come potevo dimenticare quella voce che continuava a martellarmi le orecchie, come potevo annullare quella risata che aleggiava leggera nell’aria e come potevo cancellare quel viso che tormentava le mie notti insonni.

    Non potevo, non riuscivo, era qualcosa che non sapevo fare, dimenticare Masaki era impossibile.

    “Lily” mi chiamò, “tu… lui… Per un attimo Masaki ha visto la luce abbandonare il tuo corpo e non poteva fare niente per impedirlo, per riportarti indietro” disse ponderando ogni singola parola.
    “Che vuoi dire?”

    “Jun, vai più veloce!” lo supplicai.
    “Masa, più veloce di così ci ammazziamo” mi sgridò guardandomi di traverso dallo specchietto retrovisore.
    La strinsi a me più forte, la testa poggiata sulla mia spalla, la sua mano stringere la mia, il suo respiro affannoso sul mio collo… poi il nulla.
    “Lily! Lily!” la chiamai scuotendola.



    “Lily! Ti prego! Ti prego!”



    Spinto da quel briciolo di adrenalina aprì lo sportello della macchina senza neanche dare il tempo a Jun di fermarsi.

    Corsi, corsi con tutto il fiato che avevo in gola, qualcuno mi venne incontro, ma non so dire chi, la prese dalle mie braccia e la portò via da me.
    “Resta qua” mi disse spingendomi contro il muro.
    Non dissi una parola, scivolai a terra e fissando quella mano che prima stringeva la sua cercai di dare un senso a quel giorno, a quello che era appena successo.


    “Gli sei morta fra le braccia Lily. Per un attimo Masaki ha assaggiato l’amaro gusto del terrore, la pesante sensazione di pietrificarsi dalla paura, ha visto l’ignara consapevolezza prendere vita davanti ai suoi occhi. Per giorni ti è rimasto accanto, mentre tu dormivi, per giorni si è fatto carico di una colpa che non appartiene a nessuno e per giorni si è preso pugni in faccia da Andy perché trovava in lui un modo perfetto per sfogare la sua rabbia. Masaki dà tutta la colpa a se stesso, pensa che è colpa sua se sei stata male, vuole stare con te Lily, ogni sera continua a vegliare su di te da lontano, perché ha paura che la sua presenza possa farti stare male di nuovo. Masaki ha semplicemente paura”.

    Ascoltai quelle parole in silenzio incapace di dar fiato alla bocca, quella verità faceva maledettamente male, più del dolore fisico, più di qualsiasi altra cosa.

    Feci l’unica cosa che in quel momento riuscì a fare, mi alzai, presi i primi vestiti che trovai e velocemente mi cambiai.
    “Sei impazzita?” mi chiese Allyson.
    “Si, forse lo sono” le risposi, “devo andare da lui, ma questa volta lo prendo a pugni io però, anche se questa dovesse essere l’ultima cosa che faccio”.
    Non le diedi il tempo di dire altro che mi fiondai nel corridoio, andai dritta nel suo ufficio, sapevo che era lì, non so come ma lo sapevo.
    “Doc, ho bisogno di lei” dissi entrando, senza neanche farmi il pensiero che magari poteva essere impegnato, fortunatamente era solo.
    Mi guardò un pò stupito, “co-cosa posso fare per te?” chiese dopo avermi squadrata dalla testa ai piedi.
    “Può accompagnarmi a Chiba?”
    Quasi si affogò con il thè che stava bevendo, “cosa?”
    “Oh, andiamo non faccia finta di non aver capito… Se non mi ci porta lei posso sempre prendere il treno” dissi inchiodandolo con lo sguardo.
    Rimase per un attimo in silenzio a riflettere, un specie di duello fra il suo istinto e la sua etica professionale si stava svolgendo dentro di lui, attesi qualche minuto, ma lui non parlò.
    “Okay prendo il treno” decretai uscendo, non avevo tempo da perdere, non potevo aspettare che l’adrenalina che in quel momento si era impossessata di me sparisse, facendo ripiombare il mio corpo nel dolore.
    Non potevo permettere che quel finto momento di benessere scivolasse via da me.

    “Non essere precipitosa” mi disse raggiungendomi, “ti ci porto, ma prima voglio sapere il perché”.
    “Affari personali, deve solo portarmi al… Keikarou e aspettare fuori”.
    Non fece più domande, forse aveva capito, aveva collegato i pezzi di quel puzzle o forse aveva semplicemente smesso di cercare di capirmi.

    “Credo sia chiuso” disse rompendo il silenzio, “non c’è nessuno davanti la porta” aggiunse indicando l’ingresso, “di solito c’è la fila”.
    Lo guardai incredula, come faceva a sapere quelle cose.
    “Non guardarmi così, mia figlia è fan di quei tipi” si giustificò.
    Stavo per rispondere, ma un rumore proveniente dall’esterno attirò la mia attenzione.
    Una donna, alta e dal fisico asciutto stava pulendo davanti al vialetto, senza pensarci due volte scesi e andai da lei, “mi scusi” dissi attirando la sua attenzione.
    “Mi dispiace, ma oggi siamo chiusi” rispose voltandosi per guardarmi.

    Rimasi spiazzata, perfettamente immobile e incapace di fare qualcosa se non guardarla incantata e al tempo stesso sbalordita da quell’assurda somiglianza.
    “Ehm… Io…” balbettai, “ecco…” mi sentivo una deficiente, non riuscivo a mettere insieme due parole, non riuscivo a creare una frase di senso compiuto.
    Per tutto il viaggio avevo pensato a cosa avrei detto a Masaki, a cosa gli avrei fatto, ma l’idea di non trovarlo non mi aveva minimamente sfiorato.
    “Lily, andiamo” mi disse Kitamura-Sensei raggiungendomi, “te l’avevo detto che erano chiusi, “ci scusi signora Aiba” aggiunse inchinandosi leggermente con la testa.
    “Nessun problema” rispose con tono calmo e deliziandoci di un meraviglioso sorriso; troppo simile, troppo doloroso da guardare.
    “Devo parlare con lui, ho bisogno di parlare con lui” dissi fra le lacrime che avevano cominciato a rigarmi il viso senza che io me ne accorgessi, “devo chiedergli scusa, io… devo vederlo, ho bisogno di vederlo”.
    Entrambi mi guardavano, senza capire appieno i miei vaneggiamenti o forse facevano semplicemente finta di non capire.
    Mi asciugai gli occhi, con la manica di quella felpa grigia che da quel giorno era rimasta appesa alla sedia accanto al mio letto, il suo profumo anche se leggero continuava ad impregnare quel tessuto di cotone morbido.
    “Mi scusi” dissi quando finalmente mi calmai, “può dargli questa dissi porgendogli prima una busta da lettere bianca e subito dopo, sfilandomi la felpa gliela consegnai. “Kitamura-Sensei, mi dispiace… ehm possiamo andare ora” aggiunsi girando sui tacchi e avviandomi lentamente alla macchina.
    “Come fai ad avere questa felpa?” mi chiese bloccandomi, “e perché questa foto?”
    “L’originale è meglio di una carta stampata” risposi, ignorando completamente la prima domanda. “Pensavo di buttarla, ma so che gli piace perciò ho pensato di regalargliela”.
    Mi liberai da quella stretta e salì in macchina, il dottor Kitamura mi raggiunse solo dopo essersi scusato un altro centinaio di volte.

    Mi guardava con la coda dell’occhio, voleva parlare, lo sapevo che voleva farlo, ma non ne aveva il coraggio.
    “Se finora ho resistito è grazie a lui” dissi di punto in bianco, “ci siamo fatti una promessa e voglio mantenerla a tutti i costi, ma tutto quello che faccio non sembra mai abbastanza”.
    Rimase ad ascoltare le mie parole in silenzio, era la prima volta che mi aprivo così tanto con lui, finora l’avevo sempre rilegato in un angolino desolato della mia vita, non avevo permesso che superasse il confine tra medico e paziente, ma ora avevo bisogno di lui, perché solo lui poteva capire quelle parole che stavo dicendo con estrema difficoltà. Perché solo lui da esterno poteva realmente consigliarmi, senza mettere di mezzo i sentimenti, senza lasciarsi guidare dalle emozioni, ma ragionando solo ed esclusivamente da medico.

    Quella sera come tutte le altre sere lo aspettai, passai ore e ore a fissare quella porta con la speranza che si aprisse, che lui comparisse sulla soglia della mia stanza e che con la sua sola presenza mettesse tutto al proprio posto, facendo sparire dubbi, paure e incertezze.

    Aspettare ormai era l’unica cosa che potevo fare, aspettavo di non sentire più nulla e aspettavo lui; in qualche modo l’attesa era diventata mia amica, l’unica che continuava ancora a darmi forza, ma forse fu proprio colpa dell’attesa se presi quella decisione, se mi resi conto di quanto la mia stessa vita mi aveva fregato.

    Perché lei è così che ti frega, ti piglia quando hai ancora l’anima addormentata e ti semina dentro un immagine, un odore o un suono che poi non te lo toglie più.
    E quella è la felicità.
    Ma lo scopri dopo quando è troppo tardi.
    E sei già un esule a migliaia di chilometri di distanza da quell’immagine, da quel suono, da quell’odore… Alla deriva.


    9

    “Questa volta non ti scriverò di me, non ti racconterò di Seattle, non ti parlerò di come papà ha rotto il portafiori preferito di mamma per lanciare il telecomando ad Andy (pessima mira >.<) e, non ti dirò di come il cane dei vicini, i signori Patterson ha riempito di buche il giardino degli Harris rovinando così tutti i fiori della signora Harris che, in preda a una crisi di nervi nel disperato tentativo di acchiappare Pitt è inciampata proprio in una sua buca cadendo gambe all’aria; una scena esilarante, da morire dal ridere, ma che tu non saprai mai perché oggi ho deciso di parlarti di colui che più di tutti ha dato un senso ai miei giorni da bambina/adolescente ribelle, di colui a cui spetta il merito del mio tirocinio alla PhotoStore, Ernesto.
    Non ridere e, non fare quella faccia da pesce lesso, non sto parlando della polaroid, ma di mio nonno.
    Mi sarebbe piaciuto parlarti di lui quando eravamo insieme, quando potevo stringermi fra le tue braccia e sentirmi la persona più fortunata del mondo, quando quel tuo sorriso illuminava qualsiasi cosa nel raggio di un chilometro; quando semplicemente averti al mio fianco significava stare bene, ma purtroppo le cose non vanno come le programmiamo e noi questo lo sappiamo bene, l’abbiamo imparato a nostre spese.

    Sai, se sono diventata una fotografa è proprio grazie a lui, è lui che mi ha insegnato a vedere il mondo attraverso un obiettivo, è lui che mi ha mostrato le meraviglie nascoste che solo io e la mia macchina fotografica possiamo vedere ed è lui che mi ha fatto capire come una fotografia possa in qualche modo cambiare le persone.
    Quando il loro sguardo incrocia un foglio lucido tutto cambia, tutto prende una forma e un colore diverso, tutto per un attimo diventa un meraviglioso disastro ed è proprio in quel momento che si scatena la magia. Emozioni che credevi di non provare vengono fuori con una forza tale da sconvolgere ogni sistema, ogni equilibrio.

    La mia personale bomba atomica di sentimenti è esplosa all’incirca cinque-sei anni fa, quando per la prima volta ho assistito a quella mostra fotografica che grazie a te, Matsumoto-san, Ohno-san e Takumi-san sono riuscita a vedere per la seconda volta.

    Questo era quello che pensavo, ma come al solito mi sbagliavo.

    Quel giorno la mia bomba è stata solo innescata, la vera e propria esplosione è avvenuta con qualche anno di ritardo, quando un ragazzo dall’aria triste e malinconica, fermo davanti al distributore automatico perso a pensare chissà cosa ha attirato la mia attenzione.
    Mi sono sempre chiesta a cosa stavi pensando quel giorno, ma non ho mai avuto il coraggio di chiedertelo.
    Abbiamo parlato meno di dieci minuti, ma sono stati sufficienti a farmi capire che da quel momento la tua presenza per me sarebbe stata vitale, che solo se c’eri tu tutto sarebbe andato bene.
    Egoisticamente mi sono aggrappata a te, ti ho coinvolto nella mia vita incasinata, ti ho fatto provare un dolore che non avevi mai chiesto di provare, che non meritavi di provare e mi dispiace per questo.
    Ma sai, anche se quello che sto dicendo è ancora più egoistico non mi pento di averti avuto al mio fianco, di averti in qualche modo ingannato con i miei continui e falsi “sto bene” per farti rimanere con me.

    Ma… tu hai fatto sparire la paura dal mio corpo, mi hai dato qualcosa per cui vale la pena lottare… tu mia hai insegnato a vivere di nuovo. Mi hai insegnato che ogni singola caduta serve solo a darti la forza per rialzarti più forte di prima e, non importa quanto faccia male, non importa quanto il dolore che provi dentro ti stia lacerando l’anima, bisogna sempre lottare e andare avanti a testa alta.

    … Forse se ti avrei avuto al mio fianco anche in quel momento non avrei preso quella decisione…

    Tu esattamente come mio nonno, anche se in tempi e in circostanze diverse, mi hai salvato, con le tue parole, con il tuo affetto, con il tuo bene o semplicemente con il tuo essere.
    Un pò me lo ricordi sai, nel modo in cui mi parlavi, in cui ti prendevi cura di me, ma soprattutto nel modo in cui pronunciavi il mio nome, facendomi sentire la persona più importante del mondo; avrei voluto fartelo conoscere, sono sicura che sareste andati d’accordo.

    Se lui per me è stato l’uomo delle prime volte, tu per me sei stato l’uomo che mi ha insegnato ad amare, l’uomo che mi ha mostrato cosa significa essere amata realmente da qualcuno, essere accettata semplicemente per quello che si è.

    Sai la cosa che mi è mancata di più di mio nonno in tutti questi anni è il suono della sua voce, soffice e vellutata che ormai non ricordo più così bene.
    Dimenticarlo era la cosa che più mi spaventava, ma ora un'altra paura ha preso il suo posto e non so come gestirla; mio nonno mi ha insegnato un sacco di cose, tranne questa.

    Io ho paura di dimenticarti, di dimenticare il suono della tua voce, della tua risata così contagiosa, di non ricordare più l’effetto dei tuoi abbracci, dei tuoi baci, della sensazione di calore intorno alla mia mano quando l’avvolgevi con la tua, quando incastravi le tue dita sottili con le mie provocandomi un batticuore irrefrenabile.

    Io non voglio dimenticare le emozioni che mi ha donato, io voglio poter conservare questo ricordo per sempre, ma non so come si fa.

    Perciò perdonami se non sarò più in grado di ricordarmi di te, perdonami se un giorno quando ci incontreremo di nuovo non saprò riconoscerti… io farò del mio meglio per non dimenticare.
    Farò del mio meglio per cercare di ricordare quello che hai fatto per me, l’amore e la gratitudine nei tuoi confronti.

    Non sono brava a scrivere nero su bianco quanto ti sono riconoscente, potrei scriverti un infinità di parole, ma non saranno mai abbastanza e anche un semplice grazie in questo momento sembra solo una parola priva di significato, perciò spero che per allora sarò riuscita a trovare un termine appropriato per esprimere quanto ti sono grata, per esprime ogni singola sensazione che custodisco segretamente nel mio cuore.

    Mi nonno mi cantava sempre una canzone quando ero piccola, ma credo di non averla mai capita fino ad ora, solo ora infatti riesco a comprendere il reale significato di quelle parole scritte in musica. Forse perché la mia vita è diventata come quella di quel tizio della canzone, forse perché proprio come lui mentre stavo per precipitare giù da un ponte un bellissimo e perfetto angelo mi ha tratto in salvo mostrandomi quanto può essere meraviglioso il mondo anche quando stai per perdere tutto.
    La vita però a volte è strana, ti regala un sogno, un sogno che supera tutte le tue aspettative quando meno te lo aspetti e, proprio mentre lo senti scorrere nelle vene, pulsare con tutte le sue forze sotto la pelle lei pensa già a un modo per distruggerlo.

    Forse però non dovrei lamentarmi, non dovrei pensare che la mia stessa vita si sta prendendo gioco di me, non dovrei continuare a spingere il mio corpo così oltre il limite che mi è stato concesso, ma sono egoista, lo sono sempre stata.

    Dovrei imparare ad ascoltare i segnali che mi invia il mio corpo e credo che prima o poi lo farò, ma non ora, non quando scriverti una lettera è diventata l’unica cosa che posso fare anche se è maledettamente doloroso.

    Vorrei poterti dire che tutto andrà bene, che io starò bene e che tua starai bene, ma non posso… Nulla andrà bene, io no starò bene e tu starai da schifo nel momento in cui leggerai questa lettera, perché questo vuol dire solo una cosa: Allyson ti ha trovato, è riuscita a dartela, a parlarti, a raccontarti quella verità che io per proteggerti ti ho sempre taciuto e… forse è riuscita anche a stringerti, a consolarti e ad asciugare quelle lacrime che io non posso più asciugare; esattamente come le ho chiesto di fare.

    Non prendertela con lei, l’ho costretta io a non dire nulla fino ad oggi.

    Ho un ultimo favore da chiederti, un ultimo desiderio egoistico della mia lista: “VIVI! SII FELICE, INNAMORATI ANCORA E ANCORA. NON AVERE MAI PAURA. NON SENTIRTI MAI SOLO E SORRIDI… SEMPRE IN QUALSIASI OCCASIONE. TU, AIBA MASAKI DEVI VIVERE ANCHE PER ME E IO TI GIURO CHE NON TI LASCERÒ MAI SOLO, SARÒ SEMPRE AL TUO FIANCO E CONTINUERÒ A GUARDARE IL MONDO ATTRAVERSO I TUOI OCCHI, ATTRAVERSO QUELL’OBIETTIVO CHE PER LA PRIMA VOLTA HA CATTURATO ME, LA MIA ANIMA”.

    Io non ho paura, perciò non devi averne anche tu.

    No, non è vero. Ho paura. Ho paura di quello che accadrà, di come ti sentirai. Ho paura di queste emozioni che non riesco più a
    controllare. Ho paura di tutto in questo momento… ma non riesco ad essere sincera. Scusami, scusami Masaki se anche ora sto mentendo. Scusami perché altro non posso fare. Scusami per averti trascinato con me all’inferno. Scusami perché questa è l’unica parola che riesco a dire… Scusami.



    Ps. Dì a Nino da parte mia che non ha capito nulla di Ohno-san!”
    Lily xd


    “VOGLIO SCRIVERE LA LISTA IN GIAPPONESE. √
    VOGLIO FARE SURF. √
    VOGLIO PARTECIPARE COME PUBBLICO A UNO SHOW TELEVISIVO. √
    VOGLIO MANGIARE ONIGIRI FINO A SCOPPIARE. √
    VOGLIO SENTIRMI DI NUOVO VIVA, VOGLIO SENTIRMI PARTE DEL MONDO. √
    VOGLIO GUIDARE LA SUA MACCHINA. √
    VOGLIO ANDARE ALLA MOSTRA DI HIROSHI SUGIMOTO. √
    VOGLIO VOLARE. √
    VOGLIO ALLESTIRE UNA MIA MOSTRA... VOGLIO CHE MASAKI SIA FELICE. √
    VOGLIO CHE QUESTA LISTA NON RIMANGA SOLO UNA LISTA√”


    “Aiba-chan, meno di due minuti!”
    Alzai lo sguardo da quel foglio che stringevo fra le mani, tutti mi fissavano in silenzio e solo allora mi resi conto che quelle lacrime silenziose che avevo sempre tenuto nascoste erano sfuggite dai miei occhi e ora scendevano copiose sul mio viso lasciando una scia umida, salata e calda al loro passaggio.
    Ripiegai velocemente il foglio e lo conservai nella tasca di quel maglioncino rosso insieme a quelle due fotografie, quelli erano gli unici ricordi tangibili che mi erano rimasti di lei, le uniche prove che lei era realmente esistita, che quello che credevo un incubo camuffato in un sogno in realtà l’avevo vissuto.

    Lily era stata reale, quel dolore era stato reale, quella voragine che mi si era aperta nel petto da quando lei se n’era andata era reale… tutto quello che avevo vissuto negli ultimi due anni era stato reale e, lentamente stavo cominciando a rendermene conto.

    Forse ero riuscito finalmente a dare una forma a quei giorni confusi che mi sembravano tutti uguali e al quale mi rifiutavo con tutto me stesso di pensare, perché faceva troppo male, perché l’unica cosa che ero riuscito a fare in quei giorni era guardarla attraverso un vetro e vegliare sul suo sonno per poi sparire nel momento esatto in cui lei apriva gli occhi e nel panico mi cercava, ma non mi trovava perché io sparivo prima che lei potesse rendersi conto della mia presenza.
    La mia assenza era l’unica cosa che potevo darle in quei giorni, l’unica cosa, che a pensarci bene avrei sempre dovuto darle e, la consapevolezza di quello che era successo era la mia punizione per aver desiderato così ardentemente qualcosa che mi era vietato, qualcosa di sacro che io avevo contaminato con la mia sola presenza.
    Il ricordo di lei era il peso che avevo deciso di portare e la sua espressione priva di vita stretta fra le mie braccia era l’ombra che avevo deciso di cucirmi addosso, per non dimenticare quanto ero stato ingenuo, quanto mi ero fatto ingannare da quelle parole dal suono così falso.

    O forse come dice Sho ero semplicemente riuscito ad elaborare il lutto.

    “Masaki, lei ritorna in America, non puoi lasciarla andare così”.
    “Che altro posso fare Sho?”
    “Va da lei porca miseria, fa qualcosa, smettila di rimanere aggrappato a un ricordo”.
    “Non ci riesco!” sbottai, “ogni volta che guardo il suo viso le immagini di quel giorno mi ritornano alla mente, io… non ce la faccio”.
    “E allora non fare nulla!” intervenne Nino stufo di quella discussione che ormai si ripeteva da giorni. “Non andare più da lei, dimenticala, fa finta che non sia mai esistita e ritorna alla tua vecchia vita”.
    “Kazu non dire così” lo rimproverò subito Satoshi, “per lui non è facile”.
    “Beh, cosa credi che per noi sia stato semplice, pensi che per Allyson sia semplice vederla affievolirsi ogni giorno che passa, vederla osservare quella dannata porta nella speranza di vedere questo qui. Non è semplice per nessuno Toshi e l’unico che può fare qualcosa e lui, ma invece di darsi una mossa preferisce stare seduto a guardare”.

    Le parole di Nino mi colpirono come un pugno in pieno stomaco, aveva ragione, tutti avevano ragione, ma io non riuscivo proprio ad oltrepassare quel dannato confine che il mio subconscio aveva creato.

    I ricordi di quel giorno erano stati marchiati a fuoco, incisi per sempre nella mia mente, nei miei ricordi, nei miei occhi, l’odore del suo sangue aveva invaso le mie narici per non lasciarle più e la percezione del suo respiro abbandonare il mio collo era ancora troppo vivida, troppo reale sulla mia pelle per far finta quello non era mai successo.
    Per quanto avevo cercato di farla stare bene in quei giorni, per quanto mi ero sforzato di realizzare ogni suo desiderio e di farla sorridere a qualsiasi costo, non era servito a niente se non a farla stare peggio e a farmi diventare il suo carnefice.

    Magari i miei amici avevano ragione, magari sarebbe successo in qualunque caso, ma io ogni volta che guardavo lei, ogni volta che i miei occhi incrociavano quelli disperati di sua mamma, quelli interrogativi e privi d’espressione di suo padre e ogni volta che il mio viso si scontrava con il pugno di Andy mi sentivo la causa di tutto.

    Mi sentivo schifosamente in colpa per quello che era successo, mi sentivo in colpa per aver cercato di realizzare a tutti i costi la sua lista dei desideri, per aver sottovalutato così tanto la sua saluta da portarla in giro per il Giappone, per averla portata a fare surf e per non aver dato ascolto a quei segnali che il suo corpo tentava di inviarci.

    Per quanto sapevo che quello che era successo era un caso non riuscivo a dare a nessun altro la colpa se non a me stesso.

    La mia ingenuità, la mia cocciutaggine e il mio fallimento erano state le mie colpe e ora non potevo fare niente per ritornare indietro, per sistemare quella situazione.

    Rimanere inerme era l’unica cosa che riuscivo a fare.

    E anche il giorno della sua partenza io non feci assolutamente niente, avevo deciso di non andare a salutarla, in fin dei conti non aveva alcun senso, l’avevo ignorata per due mesi interi che senso aveva andare a dirle addio per sempre.
    Che senso aveva sentire quelle parole pugnalarmi a morte, che senso aveva dover ammettere che non ero riuscito a fare nulla di quello che le avevo promesso: non l’avevo protetta, non avevo impedito a Bob di portarla via da me e non avevo completato neanche la lista… perciò non aveva nessun senso perché io andassi lì.

    Ma come al solito i miei cari e adorati compagni mi ingannarono, ignaro dei loro progetti mi avevano portato all’aeroporto e contro il mio volere mi avevano costretto ad entrare e rendermi ancora più conto del mio fallimento.

    La notai subito in mezzo alla folla e non perché si vedeva da lontano un miglio che era malata, ma perché la luce che brillava nei suoi occhi era la stessa di quella che si era impossessata dei miei nel giorno in cui ci siamo conosciuti, che mi aveva letteralmente mandato il cervello in panne e anche ora a distanza di mesi mi faceva lo stesso effetto; quegli occhi, quella luce, quella voglia di vivere l’avrei riconosciuti sempre anche in mezzo ad altri mille.

    Appena ci vide si irrigidì un attimo, poi lentamente si alzò e venne verso di noi.
    “Grazie ragazzi!” ci disse sorridente, “grazie per tutto quello che avete fatto per me e per essere venuti qui oggi”.
    Io non risposi, in silenzio la vidi salutare uno per uno i mei colleghi, fino ad arrivare a me e bloccarsi, non sapeva cosa fare e non lo sapevo neanche io.
    Ci guardammo per un pò incapaci di parlare, di muovere ogni singolo muscolo.
    Nella frazione di un secondo ci abbracciammo per poi scoppiare a piangere contemporaneamente, l’uno sulla spalla dell’altro e nascondendo in quelle lacrime tutte quelle parole che non riuscivamo a dire. Il tempo intorno a noi si fermò avrei voluto rimanere in quella posizione per sempre.

    Perché ero stato così idiota, perché avevo permesso che andasse via dalla mia vita per sempre.
    Come potevo andare avanti senza di lei, senza quello spiraglio di luce che aveva colorato le mie giornate.
    Come potevo continuare a vivere se lei, che in quel momento era la mia ragione di vita mi stava abbandonando.

    Avrei dovuto dare retta ai miei amici, a mia mamma che improvvisamente aveva scoperto tutto quanto, aveva scoperto a chi avevo portato i suoi onigiri, aveva capito il perché dei miei silenzi, dei miei comportamenti strani e ogni giorno mi supplicava di andare da lei. Ma io avevo ignorato tutto e tutti e ora stavo lì immobile fra le sue braccia, a maledirmi per aver buttato via quei due mesi, per averla portata in condizioni di ritornare a Seattle, per essere stato il più grande idiota di tutto il Giappone.

    “Non andare” la supplicai, “non andartene di nuovo, non sparire dalla mia vita” dissi fra le lacrime.
    Non rispose, mi strinse di più a se affondando il viso nel mio petto.
    “Scusami, scusami per essere stato così stupido, per non aver capito… scusami”.
    Mosse lentamente la testa, “no, non ti scuso, perché non se tu che ti devi scusare” disse allontanandosi da me. “Masaki, perdonami” aggiunse prendendomi il viso fra le mani, troppo sottili e troppo fredde, “non volevo spaventarti, non volevo che succedesse tutto questo”.
    L’annuncio del suo volo si intromise fra di noi, impedendoci di continuare.
    “Devo andare” disse solamente.
    “Tornerai?”
    “Ci puoi scommettere”
    L’abbraccia un ultima volta, sapevo che quella era una bugia, lo sapevamo entrambi, ma in quel momento andava bene così.
    “Smile!” esclamò
    “Tienilo tu” le risposi prima di lasciarla andare.

    Non ci fu tempo di dire altro, ci salutò nuovamente e raggiunse sua madre, “ARIGATOU!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola, anche se quel gesto le costò uno sforzo in mane, prosciugandole completamente tutte le energie.
    La vidi aggrapparsi a sua mamma e riprendere a camminare… e in quel momento sentì il calore abbandonare il mio corpo.


    “Sessanta secondi!”
    Mi asciugai il viso con la prima asciugamano che trovai e di corse raggiunsi il blocco centrale del palco, strinsi per un ultima volta la sua lettera e sedendomi aspettai che gli ingranaggi si mettessero in moto, sollevandomi verso l’alto.

    Feci un respiro profondo e guardando dritto di fronte a me mi resi conto che otto paia di occhi di diverse tonalità di marrone mi fissavano nel disperato tentativo di infondermi un pò di coraggio. Gli sorrisi, per la prima volta dopo chissà quanto sorrisi.

    “3...2…1…Slide!”
    Alzai gli occhi al cielo, le urla delle fan mi circondarono mentre nelle mie orecchie quella melodia suonava familiare.
    La mia testa ritornò improvvisamente indietro di due anni, a quella serata di mezz’estata quando tutto era cominciato, davanti quel distributore, a sgranocchiare pocky e a parlare del niente…ma anche del tutto.
    Il mio pensiero era rivolto solo ed esclusivamente a lei quella sera, al mio angelo custode che in qualche modo quella sera sentivo più vicino.


    EPILOGO

    “Itai!” mi lamentai massaggiandomi il gomito.
    “Masa insomma ti vuoi dare una mossa? Ti sembra questo il momento di testare la comodità del pavimento?” mi prese in giro Jun.
    In quel momento l’avrei seriamente strangolato, “piantala! Una tizia mi è venuta contro e mi ha fatto cadere”.

    Ohno mi porse la mano, l’afferrai e facendo leva sulle gambe mi alzai, “grazie Riida”.
    “Andiamo ora prima di perdere l’aereo”.

    Camminavo a testa bassa dietro di loro ripensando allo scontro che avevo avuto poco fa con quella ragazzina. Me l’ero praticamente trovata addosso ed eravamo finiti a terra prima che potessi rendermene conto.

    Quelle sue braccia sottili mi avevano stretto in un abbraccio spontaneo, il suo viso era a pochi centimetri dal mio e quel profumo di ciliegia mi aveva letteralmente invaso le narici.
    Me lo sentiva ancora addosso, sulla maglietta.

    Ero riuscito a vederla in faccia per un secondo prima che la sua amica venisse a trascinarla via, ma era bastato quel secondo per farmi pensare che quella ragazza era carina.

    Scossi la testa scacciando via quei pensieri, era inutile continuare a pensarla sicuramente non l’avrei mai più rivista, le probabilità di incontrare una ragazza che ho visto per un nanosecondo in un aeroporto Italiano erano scarsissime e, anche se per caso fosse successo sicuramente non l’avrei riconosciuta, la mia memoria è peggio di un colabrodo, fa acqua da tutte le parti.
    Spesso durante i concerti dimentico le parti in cui devo cantare e i passi delle coreografie, devo continuamente scrivermi le cose più importanti come gli orari delle riunioni o gli incontri con i manager altrimenti li dimentico; perciò quel viso l’avrei sicuramente dimenticato nel giro di un secondo, lo stesso tempo che era servito al mio cervello per andare in tilt.


    Edited by green <3 - 16/10/2016, 21:49
  8. .
    CITAZIONE
    Io attendo... posta il più presto possibile altrimenti, già sai... DONNA IMMA. U_U
    xD :*

    mi attende minacciosa😂

    Nino è un pó un rompipalle con tutti😂😂😂
    quel nano malefico

    CITAZIONE
    Autrice, ti prego, dagli tregua... faccelo tornare a sorridere, presto!

    Tornerá Mamy...fidati😉
  9. .
    Gome Sonia!

    Spero di riuscire a pubblicare più velocemente anche perchè siamo alla fine e non voglio far passare troppo tempo
  10. .
    ... Sera! :cosa:

    Ogni tanto compaio blow

    Scusate se ci ho messo tanto ha postare, ma fra l'estate, impegni e problemi vari ho avuto davvero poco tempo per scrivere. U.U

    Senza troppi giri di parole vi posto subito la prima parte dell'ottavo capitolo... ormai siamo alle battute finali u.u

    8.1

    Il nulla davanti ai miei occhi, il caos in testa e una leggera sensazione di calore abbandonare la mia mano; queste sono le ultime cose che ricordo.
    Mi poggiai con le spalle al muro, lasciandomi scivolare a terra e guardando proprio quella mano che pochi attimi prima stringeva la sua, cercai di dare un senso a quel giorno; tutto era successo così velocemente, troppo veloce perché io potessi rendermene conto.

    “Allora ci vediamo dopo” disse allegra scendendo dalla macchina.
    “Si” risposi con un cenno della testa.
    Mi sorrise per un ultima volta e di fretta salì le scale che la separavano da casa, la seguì con lo sguardo fin quando non sparì completamente dalla mia vista, rimisi in moto la macchina e velocemente raggiunsi gli studi televisivi dove i miei colleghi mi aspettavano curiosi di conoscere i dettagli della sera prima.

    “Niente dopo la mostra siamo andati al mare” risposi all’ennesima domanda, “Lily voleva fare surf, è stata incredibile, dovevate vederla, sembrava volare sull’acqua”.
    “Ma sei scemo” intervenne Sho incredulo, “non capisci il rischio che avete corso?”
    “Lo so Sho, ma non è successo nulla” lo tranquillizzai sfilandomi la maglietta.
    “Qualcosa è successo” disse Nino sghignazzando e indicando un punto non ben definito della mia spalla.
    Immediatamente lo sguardo di tutti si spostò su di me e sulla mia spalla, ma non quella che era abituata a ricevere le occhiatine di tutti per colpa di quella gigantesca voglia, ma sull’altra, su quella che era sempre stata ignorata e messa in ombra dalla sinistra; loro si focalizzarono sulla destra.
    Mi voltai immediatamente verso lo specchio e guardando la figura che avevo di fronte cercai il motivo del loro “shock”. Non ci misi molto a scoprirlo, all’altezza della clavicola, c’era un piccolo, ma ben visibile segno rosso, un succhiotto.
    Sentì le guance ardere di calore, i ricordi di quella notte mi invasero completamente la mente, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era lei.
    Mi sembrava quasi di sentire il calore dei suoi baci sulla mia pelle e le sue mani scivolare leggere sulla mia schiena nuda. Il suo leggero ansimare e il mio nome pronunciato in un sussurrò, sembrava quasi che lei fosse lì in quel momento.
    “Eh bravo in nostro Aiba-chan!” esclamarono tutti e quattro prendendomi in giro.
    Li ignorai e allegro, ma anche un pò stupito per i vestiti che i costumisti avevano scelto per me, cominciai a prepararmi per la registrazione. Vi può sembrare strano, ma a volte ci domandiamo la provenienza dei vestiti che ci propinano, alcuni sono inguardabili, perciò trovare appeso alla propria postazione make-up il solito bermuda, un anonima maglietta e una camicia, è un evento raro, degno di nota.

    “Masa, ieri hai visto Allyson per caso?” mi sussurrò in un orecchio destandomi dai miei pensieri.
    “No, perché?”
    “Uhm, niente di particolare” rispose agitando nervosamente una mano davanti il viso.
    “Sho, non credi sia arrivato il momento di parlare con lei?”
    “Ma noi parliamo” rispose con tono ovvio.
    “Si, di Lily” gli feci notare, “io intendo parlare seriamente con lei”.
    “Io…” iniziò, ma non riuscì a continuare e in imbarazzo abbassò lo sguardo.

    Quel tipo è un genio, ha una parlantina e un carisma da fare invidia, ma con le ragazze non ci sa proprio fare.

    “Sho, il tuo problema è che pensi troppo” gli dissi dandogli una pacca sulla spalla, “per una volta non pensare, agisci”.
    “Lo so, è che…” stava dicendo quando una voce fastidiosa ci interruppe.
    “Arashi-san! Vi aspettano in studio!”
    “Arriviamo” rispose Jun per tutti, “vediamo di vincerla questa puntata, lo sapete che odio perdere e non vi azzardate a nominarmi un’altra volta” ci avvisò guardandoci uno per uno e inchiodandoci con lo sguardo.
    “La Diva ha paura di rovinarsi la messa in piega cadendo al Dame Arashi” lo prese in giro Nino.
    Non disse nulla, semplicemente lo guardò con quel suo solito sguardo inceneritore e Nino capì che era meglio non aggiungere altro e sparire dalla sua vista il più veloce possibile. Afferrò un ignaro Satoshi dal braccio e trascinandolo corse fuori dai camerini.
    Tutti e tre li seguimmo in silenzio e sorridenti guardammo Nino arrampicarsi sulla schiena del povero Satoshi e costringerlo a portarlo a cavalluccio fino al set.
    “Non vi sembra più morboso Kazu ultimamente?” ci chiese Jun.
    “Più attaccato a Ohno dici?”
    “Esatto, da quado abbiamo conosciuto Takumi è diventato…
    Appiccicoso”.
    “Che sia geloso?” chiese Sho.
    “Avrà aperto gli occhi?” ribatté Jun.
    “Si sarà finalmente reso conto che il suo Toshi è solo suo?” dissero in coro perfettamente sincronizzati.
    “Nah!” esclamai ridendo, “vi state sbagliando, Kazu non è geloso o innamorato di Riida”.
    “Come fai ad esserne sicuro?” mi chiese Sho, “il suo modo di fare è ambiguo…”
    “Semplice” risposi senza riflettere e interrompendo quello che sarebbe diventato sicuramente un monologo sull’analisi e la psicologia di Ninomiya Kazunari, “uno perché è più etero di noi tre messi insieme e due perché meno di dieci giorni fa ci provava con A…”
    “Con?”
    “Nessuno!” esclamai allontanandomi da loro, “forse avete ragione è geloso” dissi cercando di rimediare al mio errore; maledetto io e la mia bocca, stavo per combinare un disastro di livello mondiale; se Sho avesse scoperto che, anche solo per un attimo nella testa di Nino si era formato un qualche tipo di pensiero sarebbe stata la fine.
    Fortunatamente non cercò di approfondire il discorso, ma quando vide Allyson seduta fra il pubblico iniziò ad agitarsi e a lanciare occhiatine furtive a Nino. Sembrava quasi in attesa di qualcosa, un gesto o un semplice sguardo fra i due per confermare quella teoria che le mie parole avevano creato, grazie al cielo però non avvenne.
    Quello che avvenne invece, erano i continui scambi di sguardi fra me e Lily, sembrava quasi che stessimo comunicando con gli occhi, riuscivo a capire perfettamente quello che stava pensando.
    “Sta tranquillo sto bene” mi diceva cercando di convincermi, ma per quanto quelle parole non dette erano così confortanti io non riuscivo a tranquillizzarmi.
    Da quando avevo messo piede in quello studio televisivo e i miei occhi l’avevano trovata fra tutte quelle persone, mi ero sentito invadere dallo stesso stato di ansia e irrequietudine che mi avevano svegliato quella mattina, quel dolore lacerante allo stomaco era tornato, mi tremavano le mani e stavo cominciando a sudare in maniera anormale.

    Sentivo che qualcosa non andava, avevo una brutta sensazione, mi sembrava di essere già sulla piattaforma del Dame Arashi in attesa di cadere nel vuoto.

    A pensarci bene credo che il mio subconscio quel giorno aveva capito molte più cose di me e in qualche modo cercava di avvisarmi, di preparami, ma io come al solito ignorai quei segnali.

    Feci un respiro profondo e cercai di calmarmi quando sentì l’annuncio del direttore di produzione, fra meno di un minuto sarebbe cominciata la puntata e di certo non potevo andare di fronte a una telecamera in quello stato.
    Mi concentrai quindi sulla prima cosa che mi passò per la testa, ovvero su quel raro momento che quella mattina mi aveva regalato.

    Mi concentrai sull’immagine di lei che dormiva serenamente al mio fianco, su come il suo sonno tranquillo era riuscito a calmarmi già una volta.

    Sapete occasioni come quelle per me erano rare.

    Non ridete, dico sul serio, vederla dormire per me era raro.

    Certo l’avevo vista addormentarsi fra le mie braccia, ma non è la stessa cosa.
    Non è come vedere il suo viso rilassato assumere espressioni strane o come vederla sorridere e sentirle pronunciare il mio nome e altre parole incomprensibili, perché proprio come mi aveva detto Allyson, lei durante il sonno parla.
    Non è come vederla accoccolarsi sempre di più a me in cerca di quel calore che emana il mio corpo, stringermi a lei sempre più forte come ad impedirmi di scappare, di lasciarla lì da sola.
    Non è come scoprire quelle sue debolezze che vengono fuori solo in quelle occasioni, quando è il suo vero io a far muovere il suo corpo.

    Guardarla dormire, in quel letto candido mi fece capire più cose di lei di quante ne avevo capito fino a quel momento.

    Capì quanto in realtà avesse paura di quello che le stava succedendo, di quanto la mia presenza per lei in quel momento era importante, quasi vitale direi. Capì la fragilità nascosta dietro quella corazza che si era cucita addosso, le sfumature nascoste dietro quei sorrisi che fino a quel momento mi sembravano tutti uguali, ma che invece nascondevano infiniti sentimenti.

    Scoprì che accarezzarle il viso mentre dorme, la tranquillizza, che il semplice contatto delle dita sulle sue guance le provoca un sorriso diverso, un sorriso quasi timido che vidi per la prima volta quella mattina e di cui mi innamorai immediatamente.

    Imparai che stringere le mie braccia intorno alla sua vita significa trovarsela avvinghiata addosso senza neanche rendersene conto, che accarezzarle delicatamente la schiena le provoca dei leggeri brividi e la pelle d’oca su tutto il corpo. Al contrario invece la mia assenza la sveglia, in qualche modo riesce a percepire il momento esatto in cui io mi allontano da lei. Ogni volta che mi alzo dal letto per un motivo o per un altro il suo viso si incupisce, allunga una mano in cerca della mia schiena e non trovandola si sveglia in uno stato di agitazione alquanto preoccupante che sparisce qualche istante dopo con il mio ritorno.

    Quella mattina imparai un mucchio di cose su Lily, ma anche su me stesso.

    Per la prima volta capì che per tutto il tempo io non avevo fatto altro che mentire… a lei e a me stesso.

    Mi sono sempre nascosto dietro quei silenzi che non mi appartenevano, che a fatica si adattavano alla mia persona. Per circa due mesi avevo innalzato un muro invisibile fra me e lei e tutti quei silenzi innaturali mi aiutavano a non varcare quella sottile linea di confine, a franare i miei istinti e a dare un limite ai miei desideri. Ma quella sera quell’autocontrollo si era dissolto come una nuvola di fumo ed era bastato uno sguardo diverso perché ciò accadesse. Nel momento in cui le sue braccia mi strinsero e il profumo del mio bagnoschiuma mischiato alla sua pelle mi invase le narici persi completamente il controllo di me stesso spingendomi fino al punto del non ritorno.
    È vero, l’ho sempre desiderata, ho sempre desiderato baciare quelle labbra morbide, così perfette da sembrare disegnate, di sfiorare ogni centimetro del suo corpo, di accarezzare quella pelle liscia e bianca da sembrare quasi innaturale. Ho sempre desiderato svegliarmi al suo fianco, i nostri corpi nudi stretti fra le braccia dell’altro in quel momento di intimità e dolcezza solo nostro, ma in tutti i modi avevo cercato di reprimere quel desiderio.

    In qualche modo avevo rinchiuso in una bolla i sentimenti che provavo per Lily sminuendoli e facendoli sembrare insignificanti, meno forti e reali di quanto in realtà fossero.

    Forse l’avevo fatto per proteggermi o semplicemente perché avevo paura, avevo sempre avuto paura fin dal primo momento e l’avevo anche ora, mentre la guardavo sistemare meglio Stewart ai suoi piedi.

    Quel giorno mi faceva paura, lei mi faceva paura.

    Ero terrorizzato da un qualcosa che non aveva forma, ma che i miei occhi vedevano benissimo, da un qualcosa che non aveva voce, ma che le mie orecchie sentivano perfettamente, da quel qualcosa che non esisteva, ma che inevitabilmente mi fece precipitare in un vortice di angoscia, smarrimento e puro doloro che ormai conoscevo fin troppo bene.

    Quel giorno mi sentivo come se quel sogno che avevo fatto tanto tempo fa, quando ancora non sapevo niente, era diventato reale.

    Le urla del pubblico mi riportarono alla realtà, la registrazione era cominciata da qualche minuto, ma io me ne resi conto solo quando comparvero in cima alle scale nascosti da una leggera cortina di fumo i plus one della nostra squadra.

    “Tutto okay?” mi sussurrò Jun in un momento in cui le telecamere non erano puntate su di noi.
    “Non sembra stare bene” risposi.
    “Che vuoi dire?”
    “Prima fila, di fianco ai nostri posti” gli dissi.
    La guardò per un attimo e capì immediatamente quello che volevo dire, “tranquillo, magari è solo un pò affaticata” disse cercando di convincermi.
    Tentai di rispondere, ma Sho si intromise fra di noi, “ohi voi due, la smettete di confabulare!” esclamò con finto tono arrabbiato.
    “Gome!” rispondemmo in coro e scoppiando a ridere subito dopo.
    “Stiamo lavorando qui” si intromise Nino sgridandoci, ma provocando una risata generale che smorzò la tensione che si era creata.

    Fra una battuta e l’altra la situazione ritornò alla normalità o meglio per gli altri ritornò alla normalità.

    Io mi sentivo come una lancetta impazzita di un orologio.

    Mi sentivo intrappolato in una sorta di spazio temporale, in cui solo io percepivo lo scorrere del tempo. Il mio corpo era diventato pesante, ogni movimento richiedeva il triplo della forza e il doppio del tempo che ci impiego di solito per muovere un muscolo.
    Tutti intorno a me si muovevano a una velocità anormale, corpo e tempo sembravano correre su due strade diverse, su due linee parallele destinate a non incrociarsi; tutto era dannatamente strano.

    Era come se il tasto fast forward della mia vita era stato premuto mentre io ero ancora in pausa.

    Il countdown di una bomba pronta ad esplodere era apparso davanti ai miei occhi.

    3... 2... 1… BOOM!

    Il terreno sotto ai miei piedi stava cedendo e io stavo cominciando a precipitare nel vuoto.

    “Ah… Aiba-san, tutto okay?” la voce di Itou-san mi riportò alla realtà.
    Un letto di quadrati di gommapiuma aveva attutito la mia caduta e io miei colleghi mi guardavano dall’alto con espressione divertita; la puntata era finita e io non me ne ero nemmeno reso conto.
    Feci la prima cosa che mi passò per la testa, afferrai un quadrato di spugna e lo lanciai al cameramen che avevo di fronte, per poi sprofondare di nuovo.

    “Ho fatto così schifo?” chiesi mentre tornavamo nel camerino.
    “In realtà no” rispose Riida.
    “Hai fatto peggio di schifo” si intromise Nino interrompendolo.
    Abbassai lo sguardo mortificato, ma soprattutto deluso da me stesso, avevo permesso che la paura prendesse il controllo del mio corpo e che mi intrappolasse in una bolla invisibile.
    Mi ero fatto condizionare da lei così tanto da diventare la sua marionetta, il suo pupazzo da controllare e manovrare a suo piacimento.
    “Scusate ragazzi” dissi rompendo il silenzio di quel camerino.
    “Ma dai piantala” rispose Jun ridendo, “anche se hai fatto schifo abbiamo vinto”.
    “E la Diva non è caduta nel vuoto” si intromise di nuovo Nino.
    “Kazu, per caso oggi hai intenzioni di farti male?” gli chiese Jun inviperito.
    “Non è nei miei programmi” rispose lui secco buttandosi sul divano accoccolandosi sempre di più a Ohno.
    “Che ti prende?” gli chiese sorpreso da tutte quelle attenzioni che ultimamente Nino gli dava, ma non ricevette nessuna risposta, la loro conversazione fu interrotta da un leggero toc-toc.

    Ci misi un pò a realizzare quello che stava succedendo, Jun si era fiondato alla porta, Nino si era scollato da Ohno saltando giù dal divano come una molla, Sho nel giro di tre secondi si era tolto quei vestiti orrendi di dosso, ora indossava un jeans e una felpa nera e Ohno si era messo a sedere più composto e ora, invece del nulla fissava le due figure in attesa sulla soglia della porta. Solo io ero rimasto perfettamente immobile incapace di fare qualsiasi cosa.

    “Prego, accomodatevi” disse loro Jun.
    Entrambe entrarono leggermente in imbarazzo e per la seconda volta sul volto di Allyson vidi comparire un leggero rossore che non le si addiceva per niente. In maniera un pò strana si avvicinò al divano per poi lasciarsi andare e sprofondare completamente nei cuscini a quanto pare trovarsi nella stessa stanza con Nino e Sho l’aveva resa alquanto nervosa e le occhiatine che le lanciavano quei due non le erano d’aiuto.

    “Masaki mi ha parlato di te, ehm grazie per i biglietti”.
    Improvvisamente la sua voce era diventata così vicina, mi rimbombava nelle orecchie e risuonava leggera nella mia testa.

    Da quanto tempo era lì, al mio fianco a chiacchierare allegramente con Jun.

    “֤É stato un piacere” rispose lui allegro, forse un pò troppo allegro. “Vieni ti presento gli altri” aggiunse afferrandola dal braccio.
    Contemporaneamente sentì le sue dita sottili stringere il mio polso, quel contatto gelido mi svegliò dal mio stato comatoso e finalmente ritornai con i piedi per terra.
    “Ehm… Jun tranquillo” gli dissi senza mettere troppa enfasi nelle miei parole, “faccio io”.
    Mi guardò, sorrise e in silenzio raggiunse gli altri comodamente seduti sul divano.
    “Stai bene?” le chiesi appena rimanemmo soli.
    “Si, sta tranquillo”.
    Inchiodai il suo sguardo con il mio, le sue parole non mi convincevano per nulla, per quanto continuava a sostenere quella tesi i fatti erano ben diversi.
    La sua pelle era ritornate incredibilmente pallida, quel colorito roseo e naturale che aveva fino al giorno prima era improvvisamente sparito. Il suo viso era stanco, il contorno degli occhi, anche se coperto con un leggero strato di fondotinta era segnato di rosso, come se non avesse chiuso occhio da giorni e quel tubicino trasparente, che fino a quel momento mi era stato del tutto indifferente ora mi spaventava.

    Avevo finalmente acquisito la consapevolezza di quello che le stava succedendo?

    Non lo so, ma in quel momento Lily mi sembrava dannatamente malata, più di quanto non lo fosse già

    “Sto bene” disse di nuovo poggiando una mano sul mio viso, come a consolarmi.
    “Sei gelata” risposi solamente.
    “Scusa” sussurrò abbassando gli occhi.
    Senza pensarci troppo presi la felpa grigia abbandonata sulla sedia e gliela passai intorno alle spalle, la vidi sciogliersi sotto quel calore.
    Un pò titubante la presi per mano e lentamente ci avvicinammo agli altri, senza troppi giri di parole la presentai ai miei colleghi, o meglio a Ohno e a Nino; fortunatamente sia lei che Kazu capirono le mie intenzioni e davanti a Sho fecero finta di non conoscersi.

    Esattamente come mi aspettavo la riempirono di domande, le fecero letteralmente il terzo grado, volevano sapere tutto, ogni minimo dettaglio e particolare. Lei rispose a tutte le loro domande saziando la loro infinita curiosità, non sembrava infastidita, anzi sembrava quasi divertita da tutte quelle attenzioni che loro le rivolgevano.

    “Sappiamo della lista” disse Jun di punto in bianco, “quanti ne sono rimasti?”
    “Tre” rispondemmo contemporaneamente per poi guardarci e sorriderci a vicenda.
    “I più difficili” continuò lei, “beh, ma non importa se non riesco a farli, Masaki e anche voi avete già fatto tanto per me, non voglio causarvi altri problemi” concluse un pò in imbarazzo.
    “Lily” la chiamai stringendo la presa sulla sua mano sempre più fredda, “tu non mi crei nessun problema”.
    “Quali sono rimasti?” continuò a chiedere Jun.
    Prese quel foglietto piegato e ripiegato più volte dalla tasca dei jeans e glielo porse.
    Un punto in particolare attirò l’attenzione di Jun, “sei una fotografa?”
    “Fotografa è un parolone” gli rispose con tono ironico, “per il momento sono una ragazza che si diverte a imprimere su un foglio lucido le emozioni che la gente nasconde a se stessa, ma che vengono fuori in una fotografia. Sto ancora studiando… al momento sono in pausa ecco”.
    Le sue parole scatenarono la curiosità di Jun e in un attimo quei due presero a parlare escludendoci completamente dalla loro conversazione.

    Vederla parlare con Jun mi provò uno strano effetto che non riuscì bene a classificare, ero forse geloso di lui?

    No, assolutamente no, non ero geloso del mio compagno di gruppo.

    Entrambi condividono la stessa passione, sappiamo tutti quanto a Jun piace la fotografia, in fondo quella rivista fotografia sul quale era stampata quella fotografia che per mesi era stata la mia via di fuga l’avevo rubata a lui perciò non avevo nessun motivo per essere geloso di lui che involontariamente e inconsapevolmente mi aveva mostrato la foto di Lily su YouPhoto.

    Aspetta… Quella foto è sua.

    Scattai in piedi come una molla i loro sguardi mi seguirono per tutta la stanza, mi fiondai sul mio zaino, lo afferrai da sotto e capovolgendolo svuotai il contenuto sul pavimento. Lo sfogliai freneticamente, fino ad arrivare alla pagina che mi interessava, sotto la foto, scritto in caratteri microscopici c’era il suo nome, il suo nome completo.

    Ecco perché mi suonava così familiare, ecco perché quell’istantanea mi provocava le stesse e identiche sensazioni di quel vortice. Ecco perché con lei mi sentivo stramaledettamente bene e a mio agio, perché lei in qualche modo era sempre stata con me.

    Lei era diventata la roccia sul quale aggrapparmi, la mia ancora di salvezza, nonostante la paura che mi dilaniava da dentro, io volevo lei e non riuscivo a farne a meno perché lei esattamente come le sue fotografie mi calma, mi tranquillizzava così tanto da farmi sentire leggero, la mia attenzione veniva catturata completamente da lei e per tutto il giorno non riesco a non pensare a nient’altro se non a lei.

    Per tutto il tempo Lily c’era sempre stata, e io lo capì so allora…

    … Un attimo prima della fine.

    “Che ne dici della Sky Tree Tower” disse improvvisamente Nino, “è abbastanza alta”.
    “Ma devono sbrigarsi o la troveranno chiusa” si intromise Allyson, “Sho-kun perché non andiamo anche noi?”
    “Ehm… dovrei lavorare” rispose lui, “mi dispiace”.
    “Tranquillo, è il tuo lavoro dopotutto”.
    “Vengo io!” esclamò Nino, “non ho niente da fare” aggiunse fulminando Riida con lo sguardo.
    “Allora è deciso, sia va alla Sky Tree” sentenziò Jun.

    Li guardai confuso, mi ero perso qualcosa, quel giorno non riuscivo a stare proprio al loro passo, continuavo a perdermi nel labirinto dei miei pensieri.
    “Mi sono perso” dissi avvicinandomi di nuovo a loro, “perché andiamo alla Sky…”
    “Lo capirai quando saremo lì” rispose Jun interrompendomi.

    Come uscimmo dagli studi Tv con due ragazze senza farci beccare non ve lo so spiegare, a tutt’ora rimane un mistero anche per me, ma in qualche modo ci ritrovammo tutti nella macchina di Jun, premuti l’uno all’altro come sardine.

    “Mi volete spiegare?” chiesi per l’ennesima volta, ma nessuno si degnò di rispondermi, continuavano a parlare entusiasti fra di loro progettando chissà cosa.

    Il loro entusiasmo però non durò molto, nel momento in cui Jun svoltò l’angolo e ci ritrovammo ai piedi della Sky Tree Tower, i loro volti cambiarono immediatamente espressione.
    “Non abbiamo considerato la quantità di persone che viene qui ogni giorno” osservò Allyson infilando ancora di più il dito nella piaga.
    “È impossibile dopotutto” rispose Lily, “sapevo che lo era nel momento stesso in cui l’ho scritto, perciò non importa” concluse forzando la sua bocca ad assumere una posizione alquanto strana; vagamente ricordava un sorriso, ma forse era più riconducibile a una smorfia.

    Ascoltando le sue parole capì finalmente il perché ci trovavamo ai piedi di quella torre immensa e il penultimo desiderio mi ritornò in mente, “VOGLIO VOLARE”.
    La stranezza di quel desiderio aveva spiazzato sia me che Sho, entrambi quando leggemmo la lista per la prima volta rimanemmo spiazzati da quel punto così strano e impossibile da realizzare.
    Mi ero tormentato per giorni su come realizzarlo, ma paracadutismo a parte non mi veniva in mente niente di normale, anche se ripensandoci bene, non credo che per realizzarlo seguire la strada della normalità era la cosa più giusta da fare.
    Eppure sentivo che la risposta al quel quesito era semplice e anche vicina, ma non riuscivo a trovarla.

    “C-casa tua!” esclamai all’improvviso, “Kazu, casa tua è abbastanza alta”.
    Una piccola lucina si era accesa nel mio cervello, illuminando quel ricordo che stranamente avevo accantonato e rispondendo a quel quesito che sembrava impossibile. “Se guardi in basso da questa prospettiva hai come l’impressione di volare” mi aveva detto quella sera sul tetto dell’ospedale dove mi aveva fatto entrare per la prima volta nel suo mondo, dove per la prima volta vidi la magia prendere vita davanti ai miei occhi e dove lasciai che Lily entrasse nella mia vita, stravolgendola con la stessa potenza con cui un tornado si abbatte su una casa.

    …E a pensarci bene… lei è come un tornado, genera il caos ovunque vada…

    Raggiungemmo casa di Nino in fretta e senza farci vedere sgattaiolammo sul tetto di quel palazzo altissimo. Tutti e quattro rimanemmo un passo dietro a lei, la guardammo liberarsi da quel fastidiosissimo tubicino e avvicinarsi sempre di più al parapetto, per poi arrampicarsi alla ringhiera e sporgersi il più possibile.

    Allungò le braccia, come se al posto degli arti avesse due immense ali, lasciò che il vento la colpisse in pieno, attraversando ogni centimetro del suo corpo, le dita sottili accarezzarono l’aria che le trapassava. Chiuse gli occhi e dolcemente abbandono la testa verso dietro…

    Tutto successe così velocemente, troppo veloce perché io potessi rendermene conto.
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