Sagi

Avventura/Fantasy - NinoxOC - giallo

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  1. hika86
     
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    Sagi


    3. Morikawa Kazunari
    Per gentile concessione di Morikawa Rie, avevo due possibilità di risposta. Oltre alla fuga intendo, ma non era plausibile: io zoppicavo e tra me e la porta d’uscita, unica breccia che io avessi visto nelle alte mura bianche che circondavano la casa, c’erano una trentina di uomini armati di spada da allenamento, abituati al combattimento e la maggior parte di loro doveva essere pluriomicida dato il periodo.
    La prima opzione, quindi, era mentire.
    Non credo di essere mai stato un buon bugiardo e recitare e mentire sono due cose diverse. So mantenere abbastanza bene una faccia da poker, ma quello avrebbe dovuto essere un altro genere d’inganno. Quale storia incredibile avrebbe spiegato il mio abbigliamento? O il modo in cui ero comparso e piombato dal cielo? O il perché parlassi dicendo cose che non comprendevano? Per non parlare di tutti gli altri dettagli che in quel momento non esistevano, come la mia famiglia, i miei amici, la mia vita. Addirittura la mia città!
    Poi, oltre ad architettare una scusa avrei dovuto interpretarla. Ero quasi sicuro che mi sarei contraddetto più che facilmente su alcuni dettagli ed è proprio su di essi che nei film cercano di fregare i personaggi per scoprire se dicono la verità oppure no, se sono spie o alleati. Mi avrebbero colto subito in fallo e a quel punto avrebbero sospettato di me per sempre: se avessi mentito una volta perché non due? Insomma mi sarei giocato la credibilità.
    Non rimaneva che la seconda possibilità: dire la verità. Quella famiglia mi aveva soccorso, mi aveva ospitato comodamente e curato, seppur con gentile freddezza. Si erano meritati quella verità.
    Il problema di fondo era che pure quel che non era una bugia sarebbe suonata come una balla: colossale, grossolana e piena di falle. Infatti, per assurdo, qualsiasi idiozia mi fossi inventato, purché un minimo ragionata, sarebbe suonata molto più credibile della realtà, quindi non potevo escludere che pur parlando sinceramente il signor Morikawa avrebbe potuto non credermi.
    Un altro aspetto spinoso della questione era proprio il mio interlocutore. Non potevo raccontargli tutto nello stesso modo usato con Rie: lei era una donna, che in molte realtà di quel tempo significava essere appena più importanti dello straccio per i pavimenti, mentre lui non solo era un uomo, ma era anche il capo di una famiglia importante, o almeno ricca, data l’estensione della casa in cui viveva. Inoltre era una persona istruita, non era un semplice guerriero particolarmente ricco: conosceva la medicina dell’epoca che -per quanto dovesse essere un misto di rimedi della nonna, vaghe conoscenze scientifiche e deduzioni empiriche- era comunque un’istruzione non da tutti, né banale e probabilmente poco accessibile.
    Insomma, quello davanti a me era un uomo con molte conoscenze e molti mezzi. In confronto a lui il mio Q.I. doveva essere ridicolo, soprattutto perché non avevo grandi informazioni sulla vita di quel periodo e tutto il mio sapere geografico del mondo, le mie conoscenze di tecnologia o quel poco che ricordavo di scienze e storia dal liceo, in quel momento valevano meno di zero.
    Avevo pensato tutte quelle cose la sera prima, come Rie mi aveva consigliato di fare? Ovviamente no. Pensai ognuna di quelle cose in cinque minuti, fissando la spalla dell’uomo davanti a me, in silenzio e cadendo come in trance. Ero immobile da tanto tempo che il mio corpo oscillava leggermente.
    «Ninomiya sama?» domandò Morikawa con una nota di apprensione ad addolcire l’aria severa che aveva assunto dopo avermi posto la domanda
    «Scusate» balbettai sbattendo le palpebre e cominciando a massaggiarmi la gamba piegata, che nel frattempo si era addormentata. «Stavo pensando a come rispondere, sembra più difficile di quanto non credessi» ammisi parlando lentamente.
    «E’ tanto complicato dirmi da dove vieni?» chiese stupito
    «Forse è più corretto chiedere prima “da quando” vengo» spiegai facendo una smorfia. «Ma anche in quel caso non sarebbe facile spiegarsi»
    «Non capisco» commentò l’uomo portandosi una mano al pizzetto sul mento
    «Voi avete pronipoti?» provai a chiedere, alzando timidamente lo sguardo su di lui
    «No» mi rispose confuso. «Neanche nipoti, non per ora almeno»
    «Bene, allora provate a pensare a me come ad un pronipote. Non ne avete, no? Eppure io sono qui, già cresciuto, e dico di abitare in una città in cima a questa collina»
    «Non c’è alcuna città lassù» asserì ancora l’uomo, pensoso
    «Non ora, ma magari, per quanto vostro pronipote sarà grande, ci sarà. Quindi lui viene da lì, perché nel suo tempo c’è una città in cima alla collina. E dice di vivere con il fratello Jun e il padre Sho, che sarebbe quindi vostro nipote» ragionai contando gli ipotetici familiari sulle dita
    «Che io però non conosco, perché ancora non sono nati» cominciò a ragionare lui seguendo il mio discorso
    «Proprio così. Quindi voi state chiedendo al vostro pronipote di dire che viene da una città che ancora non esiste e di raccontarvi di cose di sé che non sono ancora successe: io non sono vostro pronipote ovviamente, anzi non credo di avere alcuna parentela, ma anche se fosse temo che i nipoti e i pronipoti tra di noi siano almeno una decina, il che significa che vengo da un tempo ancora più lontano»
    «Quindi non solo mi parleresti di una città che ancora non esiste, ma potrebbe darsi che per te non ci sia nemmeno più la collina?» domandò ragionando lentamente
    «Esattamente» annuii entusiasta. Il mio era stato un escamotage brillante per spiegare una cosa semplice come “vengo dal futuro”, in maniera contorta eppure abbastanza pragmatica e chiara da farmi sentire quasi intelligente. Wow! «La mia città non esiste, così come non esistono la mia famiglia, i miei amici e tutto ciò che era la mia vita. Ha senso allora rispondere alla vostra domanda?»
    «Alla prima forse no, ma alla seconda?» chiese cocciutamente
    «Per assurdo, potrebbe essere più facile, ma sono solo supposizioni. Nella mia epoca io sono un artista e mi stavo preparando per fare una recita» cominciai a spiegare cercando di evitare termini che non sarebbero stati compresi come "camerino", "film", "riprese" e cose del genere. «Poi d'improvviso c'è stata una grande luce e dopo sono caduto a terra in una città sconosciuta. E' stato allora che mi sono fatto male e che sono stato portato qui. Rie sama ha detto che secondo lei sono arrivato con la magia» aggiunsi titubante. La parola “magia” cominciava ad assumere lo stesso sapore di idiozia misto a quello di unica-risposta-possibile che aveva caratterizzato anche la frase “vengo dal futuro”. Era una sensazione fastidiosa.
    «Le hai parlato di questo?» domandò Morikawa leggermente allarmato
    «No, no. Ma lei mi ha visto comparire in cielo e cadere a terra, non avevo bisogno di raccontarle da dove venivo perché arrivasse ad una simile conclusione» cercai di spiegare. Quella ragazza era stata gentile, non volevo metterla nei guai facendo intendere che aveva taciuto ai suoi familiari la verità. «Anche se fossi di questa epoca, non sarebbe tanto normale comparire dal nulla»
    «Non è normale, ma non è impossibile» mi rispose lapidario.
    Se non mi fossi trattenuto avrei strillato un “ah no!?”, poi mi venne in mente che anche Rie si era fatta molto seria quando avevamo parlato di magia. Possibile che esistesse una roba così assurda nel Giappone del 1500?
    Morikawa mi staccò gli occhi di dosso, e io fissai la mia maglietta di E.T.: il premio assurdità lo vincevo io comunque.
    «D'improvviso eri in un posto e poi ti sei trovato da un'altra parte, eh? Anzi, anche in un altro tempo» rimuginò a bassa voce. Perché ancora non mi stava ridendo in faccia?
    «Sì, è così» annuii.
    Mi portai le dita alle tempie. Ora che avevo chiarito un paio di cose con il mio ospite mi ritrovai a chiedermi quante volte avrei dovuto spiegare quella situazione assurda e quanti mi avrebbero creduto.
    «Lo hai sentito, Toshinori?» chiese Morikawa guardando alle mie spalle.
    L’uomo muscoloso che avevo visto battersi poco prima si era rimesso la parte superiore del kimono e si era appoggiato col corpo al bordo del “palco” dove ci trovavamo noi, rimanendo in piedi e in silenzioso ascolto con le braccia incrociate.
    «Ho sentito» annuì senza guardarci, ma tenendo gli occhi fissi sugli uomini in allenamento. Aveva risposto in tono scontroso, cosa che mi ricordò che lui non aveva mai desiderato avermi in casa sua.
    «Gli credi?» domandò ancora il padre
    «Se me lo chiedi così, ho il sospetto che dovrei farlo» sbuffò, girandosi finalmente a guardarlo mentre gli parlava. «Non riesco a capire in base a cosa, ma immagino che se gli credi tu, ci sia sicuramente una risposta che io non riesco a comprendere»
    «Come? Mi credete?» feci spalancando gli occhi e fissando Morikawa, incredulo
    «Ci sono vari motivi per cui accetto la spiegazione del nostro ospite» disse il padrone di casa, finalmente facendo un sorriso cordiale e sincero. «Prima di tutto, la storia che ha raccontato è così poco credibile che se fosse una bugia cercherebbe di inventarne una più convincente. In secondo luogo, le sue parole mi spiegano alcune cose che ha farfugliato quando era malato e che già mi avevano fatto intendere che non era una persona qualsiasi. Certo, non pensavo ad un viaggio nel tempo, ma piuttosto ad una remota isola in mezzo al mare di cui sappiamo poco» ammise aggrottando le sopracciglia.
    Gli guardai le piccole rughe che si piegarono ai lati degli occhi e notai la pelle in parte rovinata, forse da qualche malattia. Nonostante per i miei standard non fosse un uomo particolarmente anziano, per le prospettive di vita di quell'epoca doveva essere già un vecchio uomo con molte brutte esperienze alle spalle.
    «Quindi in parte sapevo già cosa stavi per dirmi e il fatto che ciò che dici coincide più o meno con quel che avevo dedotto, mi dimostra che posso fidarmi di te: non hai cercato di nascondermi la verità» mi disse infine, provando che ci avevo visto giusto durante i miei ragionamenti pre-discorso.
    Avrei voluto sospirare sollevato o fare qualche urlo di gioia dato che era la prima cosa che sembrava andare per il verso giusto, ma chiaramente non era il frangente appropriato e non sapevo fino a che grado di cafoneria avrebbe funzionato la scusa dell'essere un uomo del futuro ignaro dei costumi dell'epoca.
    Da una porta alle spalle di Morikawa comparve una serva in un kimono grigio perla. Il padrone di casa le chiese di preparare del té per noi tre, poi tacque ascoltando il figlio maggiore, allontanatosi da noi, che dava nuove direttive sugli allenamenti. Sia io che l’uomo rimanemmo silenziosi ad osservare i giovani guerrieri che si colpivano o provavano schemi di combattimento.
    Sull’angolo sinistro dello spiazzo si ergeva un albero gigantesco. Alcune foglie cadevano lentamente fino a terra o si incastravano tra i rami più bassi. Non sono mai stato un esperto di botanica, ma chissà come, sapevo che aveva la ramificazione tipica degli alberi di tiglio e che sono poche le specie che arrivano ad essere così grandi e dalle foglie tanto folte.
    C’era anche un enorme pianta rampicante che ricopriva la facciata della casa (o forse erano due, non ci avevo fatto caso), ma non sapevo che pianta fosse, era già spoglia di fiori e foglie. L’estremità nude di alcuni rami oscillavano nel vuoto, penzolando dal tetto. In primavera dovevano formare una deliziosa cornice per quella veranda, ora sembravano solo le scarne dita di tanti mostriciattoli che stavano per scendere giù dal tetto.
    «Come mai avete un piccolo esercito in casa?» azzardai a chiedere per rompere il silenzio e distrarmi da quegli inutili pensieri botanici.
    Inizialmente avevo pensato di trovarmi in una palestra di arti marziali, ma non le era affatto. Non avevo visto praticamente nulla degli interni, ma era chiaro che quella era una residenza, una villa vera e propria. Avere spadaccini disciplinati a combattere lì non era normale, nemmeno in tempo di guerra.
    «Dalle tue parti non è normale?» domandò l’uomo in risposta
    «Non lo è, la mia terra è in pace» spiegai evitando accuratamente di parlare del Giappone come di uno stato unito, cosa che per lui non era normale e sarebbe stata un anticipazione di eventi futuri.
    «Questi sono solo una parte dei guerrieri della zona che mi sono fedeli. Alcuni sono in missione» disse l’uomo facendosi scuro in viso. «Noi siamo in guerra, anche se ancora non è stata dichiarata tale ufficialmente. Immagino che ritrovandoti qui sarà bene che tu sappia in che tempo sei finito»
    «Ho qualche idea, ma la mia epoca è molto lontana e i nomi delle ere si confondono, quindi abbiamo adottato un modo alternativo per contare gli anni» tentai di spiegare parlando con molta cautela. Volevo essere sincero, ma dovevo far attenzione a qualsiasi parola strana che avrebbe potuto destare eccessiva curiosità e svelare troppo sul futuro. «Molti ricordano meglio quello, piuttosto che il metodo tradizionale e così io non so dire esattamente in quale anno ci troviamo secondo il nuovo calendario» scossi il capo: non avrei mai smesso di rammaricarmi per quella gravissima lacuna di conoscenza che altrimenti mi avrebbe aiutato ad orientarmi in quell’epoca.
    Gli raccontai quel che potevo dire in generale sull’epoca Sengoku di modo da semplificare il discorso che mi avrebbe fatto.
    «Queste una volta erano le terre degli Ujie. La famiglia lavorava direttamente per lo shōgun e nel suo nome amministrava un’area non molto vasta, perché era una delle famiglie minori. Quando c’è stato l’indebolimento della figura centrale, gli Ujie gli sono rimasti fedeli perché non avevano sufficiente peso e potere per poter fare la voce grossa. Purtroppo però la famiglia che controllava il territorio più vasto a nord del nostro è stata tra le prime a rendersi indipendente e in pochissimi giorni ci ha conquistati per superiorità numerica» raccontò continuando a guardare i guerrieri anche quando la cameriera tornò con un vassoio e le tazze di tè fumante. Ne posò una davanti a me, poi davanti al padrone di casa e la terza vicina al bordo del palco: Toshinori stava tornando verso di noi ed era per lui.
    «I discorsi politici sono difficili da affrontare» disse il padrone di casa prendendo tra le mani la sua tazza. «E non è il momento. Comunque posso dire che non sarebbe sicuro se si venisse a sapere in giro che nelle ex terre degli Ujie i guerrieri si stanno allenando: potrebbe essere interpretato come un segno che ci stiamo preparando a ribellarci»
    «Cosa che stiamo facendo» lo interruppe il figlio
    «Sì, ma se lo scoprissero sarebbero loro ad attaccarci per primi e verremmo uccisi tutti. Sono convinto che esista una via alternativa» affermò l’altro, lapidario.
    Imbarazzato da quel piccolo bisticcio familiare decisi di far finta di nulla e mi concentrai a mia volta sul tè. La temperatura dell’acqua era ottimale, dopotutto ero fermo e seduto da almeno un’oretta e l’aria non era molto calda, doveva essere autunno inoltrato. Nel mio tempo era Maggio, se avessi saputo di quel viaggio nel tempo e che sarei finito anche in una stagione differente mi sarei portato dietro almeno una felpa!
    «Che terre sono queste adesso?» domandai per far andare avanti la spiegazione, mentre osservavo affascinato le decorazioni fatte a mano sulla tazza: la tradizione giapponese della decorazione del vasellame, ancora viva nella mia epoca, in quel momento si mostrava in tutta la sua bellezza e profondità storica.
    «Sono le terre dei Tokudaiji. Crudeli, dispotici e superbi» mi rispose Toshinori con una smorfia di disgusto
    «Gli Ujie non sono che una famiglia cadetta ormai, ma tutti gli abitanti di ogni villaggio o cittadina sono fedeli a loro, così come lo sono io: le guerre non mi piacciono, combattere e ferire gli altri non è nella mia natura, per questo spero in un’altra soluzione. Però se il mio signore, Ujie Masamune, mi chiederà di portare in campo i miei guerrieri, allora lo farò e dovremo essere pronti» asserì Morikawa con docile sicurezza. Era chiaro che il figlio ardeva del fuoco della ribellione, mentre lui era anziano e stanco, ma non per questo meno leale ai suoi doveri.
    «Padre ormai hai me, non dovrai essere tu a guidare le nostre truppe» si intromise Toshinori con apprensione
    «Tokudaiji» mi trovai a ripetere. Avevo già sentito quel nome, era mai possibile? «Sì, Rie sama ha detto che conoscono la magia!» esclamai ricordandomi all’improvviso di ciò che mi aveva detto.
    I due uomini mi fissarono seriamente. «Si dice che nel loro palazzo viva un uomo esperto di questo argomento, ma non si sa se sia vero» azzardò a dire Toshinori
    «Immagino di non poter contare su di lui se siete in guerra con quella famiglia» riflettei mascherando la mia delusione dietro un aria pensosa, come se stessi pensando ad una soluzione. La verità era che mi stavo leggermente rammaricando di non aver seguito i due guerrieri armati che mi avevano minacciato il primo giorno.
    «Non si può contare sulla magia» affermò Morikawa con fredda decisione, prima di prendere un sorso di tè. «E averci a che fare è pericoloso»
    «Se però è stata quella a portare qui il nostro ospite, temo non avremo molta scelta se non usarla per aiutarlo a tornare a casa» fece notare il figlio. Ok, era un burbero, però era un tipo sveglio, mentre su certi argomenti il padre sembrava piuttosto refrattario a cambiare opinione. Un classico.
    «Ho appena saputo la verità, non puoi pretendere che abbia già una soluzione» sbuffò il padrone di casa. «Anzi, prima di pensare a questo, abbiamo altri problemi a cui pensare»
    «Come possiamo tenere al sicuro lo straniero?» domandò Toshinori pensieroso. Scoprii allora quanto la lealtà per la famiglia e i legami tra persone fossero profondi, tanto da permeare ogni frase e azione delle persone che vivevano quell’epoca: quell’uomo era sempre stato contrario alla mia presenza lì, di certo doveva aver sospettato di me fino al giorno prima e aveva sempre detto la sua in merito, ma ormai suo padre mi credeva e lui rappresentava la famiglia, quindi tutti avrebbero dovuto conformarsi a quell’idea. Bene, la fedeltà e la gerarchia erano talmente forti che Toshinori da quel momento non parlò più di sospetti sul mio conto e cambiò totalmente atteggiamento ora che una decisione era stata presa, gradita o meno.
    «Intanto non chiamiamolo “straniero”, ma “Kazunari”. Giusto?» chiese Morikawa girandosi a guardarmi con un bel sorriso stampato in faccia. Era impressionante come i suoi lineamenti, spigolosi quando aveva un’espressione seria, si ammorbidissero come burro al sole ogni volta che faceva un sorriso. «Con le mie supposizioni in mente ho fatto qualche progetto per coprire il tuo arrivo. Alla luce delle tue rivelazioni devo fare giusto qualche modifica, ma in linea generale penso di avere la soluzione per darti modo di vivere qui con noi senza destare sospetti»
    «Significa che non devo far sapere da dove vengo?» chiesi incredulo. Questo mi risparmiava di dover rispiegare la situazione una terza volta, ne fui sollevato.
    «O “da quando” vieni, come tu stesso mi hai corretto» fece Morikawa, quasi divertito. «Non so come sei arrivato, ma è effettivamente probabile che sia stato con la magia e non verresti ben visto se si sapesse in giro»
    «Mio padre ha ragione. Quel tipo di potere è raro, ma le poche persone che lo hanno vengono isolate e non escluderei che, trovandoti qui e diventando parte dei nostri alleati, potrebbe diventare un’ottima scusa per farti fuori, se dovessi diventare una persona scomoda per i nostri nemici. Potesti essere un bersaglio e un punto debole». Toshinori sapeva essere convincente.
    Così, in pochi minuti di conversazione con loro dissi addio a Ninomiya Kazunari e diventai Morikawa Kazunari.
    Morikawa Kazunari doveva essere il figlio di uno dei tanti fratelli e sorelle di Morikawa Toshiya, il padrone di casa. Avremmo detto che ero stato mandato lì dalla mia famiglia perché non riuscivo a combinare niente di buono tra le fila dei guerrieri di mio padre. La speranza di questo fantomatico padre era che, sotto il severo allenamento di Toshinori, io imparassi finalmente un po’ di disciplina. Data la mia stravaganza nel vestirmi, cosa che avrebbe dovuto scomparire per dare meno nell’occhio, avremmo raccontato che venivo da una lontana e remota isola dove c’erano usanze diverse dalla terra ferma. Questo mi avrebbe aiutato anche nell’eventualità in cui io avessi usato parole incomprensibili e avrebbe spiegato perché il mio giapponese fosse, anche se comprensibile, piuttosto diverso da quello in uso.
    Una cosa però ero determinato a non cambiarla: portare le mutande. Avrei trovato un modo per cucine un altro paio, ma fino ad allora avrei lavato più spesso le mie. Mi rifiutavo di vivere senza indossarle! Non avevo una felpa, ma avevo addosso delle mutande nere che invece mi sarei tenuto ben stretto: non intendevo andare in giro a giocare al samurai con il mio amichetto ballonzolante sotto il kimono. Oltre che essere poco igienico sarebbe stato maledettamente scomodo.

    Finito il tè, Toshinori si offrì di accompagnarmi di nuovo alla mia stanza. Inizialmente lo seguii un po’ intimorito: non era eccessivamente più alto di me, ma era largo almeno il doppio grazie alla massa muscolare che aveva sviluppato.
    A dispetto del suo aspetto e di come si era comportato fino al giorno prima. si rivelò molto socievole e persino simpatico, prova che ormai mi aveva accettato. Fu da lui che ottenni le mie prime informazioni sulla famiglia che mi ospitava e di cui, da quel momento, ero un membro nemmeno troppo alla lontana: secondo il ruolo assegnatomi da Morikawa, io e Toshinori eravamo cugini di primo grado.
    I figli di Morikawa Toshiya, padrone di casa Morikawa, erano cinque. La primogenita, Akemi, non abitava più lì perché si era sposata pochi mesi prima con Ujie Masato, il primogenito degli Ujie, ed era entrata a far parte della famiglia del marito. Non mi sfuggì il fatto che quel matrimonio dava agli Ujie la sicurezza della discendenza e legava a loro i Morikawa che a quel modo non li avrebbero mai traditi. Inoltre quell’unione toglieva una bocca da sfamare lì in casa, e spianava la strada della successione per il secondogenito: Toshinori stesso. Non potei fare a meno di chiedermi come la ragazza avesse preso il matrimonio che con molta probabilità era stato combinato e deciso dalle famiglie, non dai suoi sentimenti.
    Toshinori così era diventato l’erede di suo padre e questo spiegava perché fosse lui a comandare i guerrieri. Non spiegava però perché il signor Morikawa avesse chiesto di tacere la verità sul mio conto anche al suo terzogenito Nagatoshi, il tipo mingherlino contro cui avevo visto combattere Toshinori qualche ora prima. Non si fidava del suo terzo figlio, sangue del suo sangue?
    Per ultima era nata Rie e nel darla alla luce il fisico della loro madre si era indebolito. Qualche anno dopo infatti era morta. Il piccolo di casa Morikawa, Toshiaki, era nato dal secondo matrimonio, ma anche la seconda moglie era scomparsa dando alla luce il bambino.
    Quella storia mi rattristò. Per l’epoca la mortalità alta era normale, soprattutto perché era un periodo di guerra, e morire di parto non era un cosa così strana. Per me invece, un ragazzino orfano di madre a soli otto anni era un caso raro.
    «Come sono le famiglie da te?» mi chiese Toshinori quando arrivammo davanti alla porta della mia stanza. La gamba si era riposata mentre ero rimasto seduto e le scale non avevano aiutato a mantenerla rilassata, però dopo aver fatto la strada al contrario mi sembrava di provare meno dolore rispetto all’andata. O forse mi ero solo abituato alle fitte?
    «Meno numerose» ammisi. «Di solito si fanno due figli, di più non capita spesso»
    «Allora si preoccuperanno di più per te. Pensi ti siano cercando?» mi chiese, improvvisamente preoccupato.
    Sgranai gli occhi: se c’era una cosa a cui non avevo minimamente pensato era cosa poteva essere successo nel mio tempo se io ero scomparso! E per la verità mi preoccupavo di più per i miei compagni, che per la mia famiglia. Ero scomparso da settimane! Mi stavano ancora cercando? Cos’avevano fatto gli Arashi senza di me?
    Sentii che le gambe faticavano a reggermi in piedi, non per il dolore, ma per quell’improvvisa realizzazione e per l’angoscia che stava seguendo, sempre più violenta. «Io mi riposerò un pochino» tentai di dire nella speranza che Toshinori mi lasciasse solo: per come cominciavo a sentirmi avrei anche potuto buttarmi sul letto e mettermi ad urlare come un disperato. Cos’avevano pensato i miei amici non trovandomi più da nessuna parte? Avevano chiamato la polizia ed era in corso un’indagine? Masaki stava piangendo? Jun era in giro a cercarmi anche dopo tutto quel tempo? Il Riida aveva fatto un mio ritratto magari, e Sho? Stava riuscendo a tenerli tutti insieme in quel momento tragico?
    «Fai bene. Mio padre dice che in un paio di giorni dovresti rimetterti. Sembra che tu abbia una costituzione robusta: non ti sei mai rotto niente?» domandò sorpreso. Nella mia epoca non rischiavo di venire sgozzato facilmente, né dovevo lottare per la vita e se pure avessi praticato arti marziali avrei usato protezioni di ogni tipo, quindi no, non mi ero mai fatto male in modo serio.
    Però non riuscii a rispondergli, in quel momento la mia mente era piena di immagini di notiziari che annunciavano la mia scomparsa e l’idea dei fan increduli e di mia madre afflitta mi toglievano il fiato.
    Mi aggrappai alla porta in carta di riso e un angolo remoto del mio cervello mi ricordò di non stringere la presa o ne avrei strappato la superficie sottile. «Non importa, sei stanco immagino. Riposati per bene, anche perché domani cominci» disse Toshinori dato che non rispondevo
    «Comincio cosa?» quell’unica frase mi fece riemergere dalla mia disperazione
    «L’addestramento. Devi fingere di essere stato mandato qui per imparare qualcosa di utile, no? Domani ti unirai agli altri» spiegò tutto contento, combattere doveva proprio essere la cosa che gli riusciva meglio.
    In quel momento mi resi conto di essermi dimenticato di far loro presente un altro dettaglio importante: sapevo combattere, certo, ma sapevo usare un’arma soltanto, il controller dell’X-box.


    Nel prossimo capitolo
    Scrivere mi sarebbe servito a schiarire le idee. Mi erano accadute tante di quelle cose in poche settimane che avevo bisogno di fare ordine, inoltre fingevo di essere un’altra persona, ventiquattro ore su ventiquattro dovevo modificare il mio carattere e la mia parlata e non avevo più il mio nome. Forse avevo paura di dimenticare chi fossi veramente.

    Notai che c’era una luce accesa nella prima sala di ricevimento degli ospiti, dall’altra parte del cortile. «Nessuno è un nemico»
«Amico mio, so che tu insisti con la tua linea diplomatica, ma sai anche tu che siamo agli sgoccioli: la tensione sta raggiungendo il culmine, presto o tardi basterà un incidente qualsiasi per scatenare la rivolta»

    Tutti urlarono a tutti della mia presenza, probabilmente nessuno dei presenti mi riteneva dalla sua parte dato che non sapevano che fossi lì, quindi presi la lama che avevo davanti al naso e la tirai verso di me, in preda al panico: se non mi fossi difeso sarei morto su due piedi, per mano dell'una o dell'altra parte.

    Se ve lo state chiedendo, sì, il tiglio è il mio albero preferito. E, sì, la pianta che ora Nino non sa riconoscere è un glicine. Ultimamente ne sto vedendo tanti fiorire in giro e ho deciso di piazzarcelo anche qui. Beh comunque si era già capito che la villa è un posto nascosto tra gli alberi e in mezzo alla natura (c'han pure laghetto e cascata naturali nel giardino!).
    Il nostro valoroso Nino, armato di maglietta di E.T., affronta il colloquio con il capo famiglia dei Morikawa finalmente. Da notare l'abilità di Nino nell'evitare il più possibile frasi in cui dovrebbe per forza rivolgersi con rispetto all'uomo che ha davanti XD Beh, dato come si conclude il colloquio d'ora in poi può stare tranquillo che se parla in maniera più familiare sarà solo una cosa normale.
    Magari qualcuno comincerà a far fatica coi nomi, il mio consiglio è di cominciare ad impararli fin da subito, questa ff ha un intreccio complesso e moltissimi personaggi (per ora ne ho contati 15/16 tra più e meno importanti) dovrete riconoscerli per capire. E comprendo anche che i nomi simili non aiutino la memoria. Sfortunatamente, all'epoca si usava dare ai nomi dei figli maschi un kanji in comune tra loro e con quello del padre. Nella famiglia Moriwaka il kanji è quello di 智 (sì, lo stesso che forma il nome di Satoshi).
    Comunque vi faccio uno specchietto riassuntivo se vi fa comodo (con anche i kanji scelti per i nomi che, come al solito, non sono scelti a caso).
    智也 Toshiya → Capofamiglia dei Morikawa
    明美 Akemi → Primogenita, andata in sposa al primogenito degli Ujie, Masato
    智則 Toshinori → Secondogenito ed erede della famiglia
    理智 Masatoshi → Terzogenito
    律恵 Rie → Ultima figlia della prima moglie di Morikawa Toshiya, ora morta
    智明 Toshiaki → Figlio della seconda moglie, morta dopo il parto


    Edited by hika86 - 14/6/2013, 11:57
     
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  2. hika86
     
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    Nei grandi romanzi russi facevano così? o.o
    Non lo sapevo XD Io l'ho messo per comodità, anche io devo ancora scrivere con lo schema dei personaggi davanti perchè non ricordo sempre tutto O_O
     
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    anche in molti romanzi storici c'é lo schema (la trilogia di magdeburg per esempio)

    mi piace sempre di piú è accurata, intrigante tutto perfettamente cesellato *-*
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    la adoro! nink tieniti strette le mutande! xD
     
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  5. hika86
     
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    Le mutande sono fondamentali! XD
    Anche perchè, da quel che so, ancora nel 1923 non le portavano o almeno non le donne (forse gli uomini sì, cominciando a portare i pantaloni occidentali avranno pensato di fare qualcosa, chissà!)
     
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  6. hika86
     
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    La Ninite è contagiosa, ed è pure una brutta bestia, perchè è difficile debellarla!
    Non so, Nino mi sembra uno che non ascolta sempre i consigli, specie se dati da sconosciuti e dopotutto Rie è una sconosciuta che gli ha consigliato di pensare a cosa dire dopo avergli raccontato che esiste la magia ed essersi rifiutata di dire altro. Forse, inconsciamente avrà pensato "fanculo, io penso quello che mi pare stanotte" e poi invece si è addormentato come un sasso perchè s'è sforzato troppo con la gamba (e perchè la boccata d'aria fresca gli ha messo meno angoscia rispetto a ciò che c'era fuori dalla stanza).
    Così eccolo messo alle strette... da se stesso!
    Hasta la mutanda siempre!
     
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    E finalmente ho iniziato a leggere questa nuova ff....lo sai che ora non avrai tregua perché voglio sapere come va a finire lo sai no????
    Adoro la tua cura dei particolari e ormai dovrei conoscerla bene, ma ogni volta riesci a stupirmi.....e ora dimmi di che ti preoccupi????
     
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    Io sto aspettando ad iniziare a leggerla. Voglio aspettare almeno un altro paio di capitoli. :)
     
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  9. hika86
     
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    CITAZIONE (geena76 @ 13/5/2013, 21:20)
    E finalmente ho iniziato a leggere questa nuova ff....lo sai che ora non avrai tregua perché voglio sapere come va a finire lo sai no????
    Adoro la tua cura dei particolari e ormai dovrei conoscerla bene, ma ogni volta riesci a stupirmi.....e ora dimmi di che ti preoccupi????

    :pici: I love u!
    Ma lo sai che sono paranoica vero? Che non sono mai soddisfatta di me stessa e non mi sembra mai abbastanza-qualcosa quel che faccio :O_O: Magari è scritta un po' cosà, magari è noiosa, magari non è interessante, magari è troppo lenta, magari non sembra Nino, magari non lo è affatto, etc etc etc
    CITAZIONE (hikki74 @ 16/5/2013, 17:57)
    Io sto aspettando ad iniziare a leggerla. Voglio aspettare almeno un altro paio di capitoli. :)

    Ti aspetterà qui la ff XD
     
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  10. hika86
     
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    Sagi


    4. Pantsu-sha¹
    A quasi un mese dal mio arrivo nel Giappone del sedicesimo secolo ogni mia ferita era guarita. Il giorno del colloquio avevo chiesto ancora una settimana, dicendo che non avrei mai potuto combattere bene se zoppicavo e non accennando al fatto che non avrei saputo combattere nemmeno quando mi fossi sentito sano come un pesce.
    Mi era stato concesso ancora un po' di riposo quindi, ma mi avevano cambiato di stanza: quella dov’ero stato fino a quel momento era in realtà la camera da letto del mio nuovo zio, Morikawa Toshiya, che vi tornò. L’ala est della villa, ossia la parte lungo la quale avevo camminato prima di andare alla mia “udienza”, era composta esclusivamente da camere da letto. Quella in cui ero stato fino a quel momento era la più grande e si trovava all’angolo con l’ala sud, che dava sul giardino del retro, poi ce n’erano altre tre. Quella subito adiacente era la camera di Toshinori, il primogenito maschio, nella seconda avevano dormito Nagatoshi e Toshiaki insieme per molto tempo, mentre l’ultima era stata delle due sorelle, ma da quando Akemi era andata in sposa, Rie aveva cominciato a condividerla con Toshiaki, lasciando che anche il secondogenito maschio della famiglia avesse una stanza tutta sua: non sia mai che una ragazza abbia più privilegi di un ragazzo!
    Comunque Rie in quella casa non c’era mai. A una settimana dalla sua partenza non era ancora tornata, così tutti i figli maschi di casa Morikawa erano finiti con l’avere le loro stanze private. Almeno fino al mio arrivo.
    In quanto cugino di primo grado non potevo certo dormire con la servitù o con i guerrieri che trovavano alloggio nella villa, quindi mi misero in camera con il piccolo Toshiaki. Fortunatamente ci andavo d’accordo, mi bastarono poche parole scambiate con lui per capire che era una specie di Aiba in miniatura, inoltrei beveva qualsiasi balla gli raccontassi, il che mi divertiva parecchio. Ormai per lui le mie mutande erano indumenti tipici dell’isola da cui provenivo e servivano a facilitare i nostri guerrieri quando usavano una tecnica speciale in cui si facevano molti salti e piroette; inoltre gli dissi che sognavo di entrare negli “Arashi”, un gruppo speciale composto dai cinque guerrieri più valorosi delle nostre terre.

    «Uno viene chiamato J-musha»² gli raccontai una notte in cui nessuno dei due prendeva sonno. «”J” sta per “jōzu”.³ Combatte con grande eleganza, sul campo di battaglia tutti lo seguono perché non c’è situazione nella quale si faccia prendere dal panico. Lui sa sempre cosa fare ed è uno dei samurai più fedeli di mio padre. Il secondo guerriero, invece, è Keio-musha»⁴
    «Che significa?» mi chiese confuso.
    Facevo veramente fatica a trattenere le risate quando capivo dalle sue espressioni o dal tono di voce che non aveva il minimo dubbio che quella fosse la verità. «Ha imparato a combattere in una scuola di addestramento di altissimo livello chiamata Keio» mi inventai. «E’ lo stratega migliore di tutto il nostro regno, lui riceve notizie da tutto il Giappone, ha spie ovunque e sa sempre tutto dei nostri nemici. È talmente intelligente che i suoi piani d’attacco falliscono raramente»
    «E quando succede, lui che fa?» mi chiese nel buio, sotto strati di coperte per tenerlo al caldo
    «Se succede è perché aveva calcolato una sconfitta» gli risposi: Sho non falliva mai, comunque.
    «Ma se uno perde, ha perso e basta» mi fece notare
    «Le guerre sono più complicate di così, fidati. Dalle mie parti ce ne sono tante quindi sono esperto». Non ho combattuto alcuna guerra mondiale, ma le ho studiate e nel mio tempo effettivamente ci sono guerre che non possono essere giudicate solo in base ad averle perse o vinte. «Andiamo avanti, va bene? Allora, un altro guerriero è Aiba chan» continuai rigirandomi nel mio futon
    «E’ un bambino? Oppure è un soprannome?»⁵ chiese confuso
    «No, si chiama Aiba Masaki, ma tutti lo conoscono come Aiba chan. È un guerriero molto coraggioso, ma nonostante abbia combattuto tante guerre e abbia visto tanta morte, è rimasto una persona gentile. Non gli piace uccidere, un po’ come al tuo papà, e lo fa solo se costretto o per difendere i più deboli e quelli che ama» mi spiacque non trovare un soprannome cool per la versione samurai di Aiba, ma tutto sommato la sua qualità migliore era proprio la spontaneità e la trasparenza, quindi non riusciva nemmeno a me di nasconderlo dietro uno pseudonimo o di snaturarlo.
    «E l’ultimo chi è? È il loro capo?»
    «Ryōshi-musha»⁶ dissi a voce bassa. «E’ il più temibile dei quattro»
    «Usa un arco?» fece Toshiaki tutto eccitato. Non gli stavo conciliando il sonno, ahimè, stavo facendo l’opposto.
    «No, una rete» risposi confuso, poi capii dove stava l’equivoco. «E’ un pescatore, non un cacciatore.⁷ È chiamato così perché è nato in una famiglia di pescatori»
    «E come ha fatto a diventare guerriero? Non può» mi fece notare il mio piccolo compagno di stanza. L’errore era stato mio, avevo dimenticato che pur non essendoci ancora stato il periodo Tokugawa, all’epoca non era comunque pensabile che un pescatore diventasse un samurai famoso.⁸
    «Quando ha compiuto dieci anni hanno scoperto che era di nobili natali ed è tornato alla sua famiglia d’origine» cercai di correggermi. «Comunque lui è il leader»
    «Il cosa?»
    «E’ una parola usata nella mia terra per dire che uno è il capo» dissi con pazienza. «E’ uno astuto sai? Se lo vedi non diresti mai che è un grande samurai. Si finge goffo, è sempre silenzioso ed assonnato e sembra interessarsi a qualcosa solo se gli parli di pesci, ma la verità è che lui finge. Vedi, in questo modo ci si accorge difficilmente di lui, allora le persone parlano senza notarlo e lui invece sente tutto. Ascolta chiunque parli e trae in inganno tutti quelli che lo sottovalutano. Dietro l’unità dei quattro membri degli Arashi ci sono la sua calma e la sua capacità di equilibrare le forze»
    «J-musha, Keio-musha, Aiba chan, Ryōshi-musha… ma non erano cinque? Chi è il quinto?».
    Dovetti spiegargli che il posto era vacante e che speravo un giorno di occupare io quel posto, ma dato che ero un buono a nulla, ero lì, in casa sua, per migliorare sotto l’allenamento di mio cugino Toshinori. Dopodiché ci zittimmo: Nagatoshi, nella stanza accanto, diede un pugno alla parete di carta che separava le due stanze e ci intimò di fare silenzio.

    Nagatoshi mi odiava.
    In quei giorni però non ne ero ancora consapevole, avevo solo il sospetto che non sarei mai stato il suo cuginetto preferito, ma più avanti avrei avuto occasione di rendermi conto che mi avrebbe sgozzato con piacere se avesse potuto.
    Era il secondogenito, quindi non gli spettava nulla in eredità, inoltre non eccelleva nel combattimento dove era Toshinori a prevalere, quindi veniva tagliato fuori da qualsiasi decisione, militare o familiare che fosse. Io, in quanto lontano cugino e quasi estraneo alla famiglia, avrei dovuto essere trattato peggio di lui, ma così non era. Non avevo voce in capitolo nelle decisioni militari, né mi veniva chiesto un parere perché chiaramente non avrei potuto aiutarli, ma il fatto che il capofamiglia mi ricevesse spesso e che Toshinori avesse piacere a stare con me quando non aveva altro da fare, dava l’idea che mi riservassero un trattamento di favore o che fossi tenuto in considerazione più di Nagatoshi. E questo non gli andava giù.
    Il giorno prima dell’inizio dell’allenamento chiesi carta e penna e mi misi a scrivere nella mia stanza, lasciando aperti gli shogi che davano sul quadrato del giardino interno della villa. Mi piaceva guardare i servitori affaccendati che pulivano i tatami, curavano le piante o lucidavano il legno dei corridoi. Dalle cucine arrivavano sempre dei buonissimi odori, alcune servette erano delle ragazze molto carine e la sera, quando pulivano i piatti dopo la cena, cantavano a bassa voce.
    Fu una di loro a portarmi l’occorrente per scrivere: pennello, barra d’inchiostro solido, suzuri,⁹ contenitore per l'acqua, fermacarta, shitajiki¹⁰ e poggia pennelli. Anche la carta, sì, un rotolo lungo e ruvido.
    Davanti a tutto quell’armamentario quasi mi passò la voglia di scrivere: niente penne a sfera nel sedicesimo secolo, maledizione.
    Nagatoshi passò davanti alla mia porta proprio durante quel mio momento di sconcerto: si teneva una pezza bagnata sul braccio destro, scoperto dopo aver arrotolato le maniche del kimono; doveva aver preso l’ennesima batosta dal fratello maggiore. «Che succede cugino, non sai usarli?».
    Non mi chiamava mai per nome. Usava sempre “cugino” e avevo l’impressione che ci fosse una sottile vena d’ironia in quel suo modo di chiamarmi, come se non si fosse bevuto l’intera storia del parente venuto da un’isola lontana. Il padre aveva deciso di raccontarla a chiunque e di lasciare che la verità la sapessero solo io, lui, Toshinori e Rie, ma dubitavo che Nagatoshi ci avesse creduto fino infondo.
    «Non bene, abbiamo queste cose da me, certo, ma solitamente usiamo strumenti più piccoli per scrivere» spiegai con pazienza: il “vengo da lontano” mi salvava il culo in molte occasioni.
    «Fūko, porta a mio cugino un pennello più piccolo, sbrigati» ordinò alla giovane inserviente. Nagatoshi sembrava perennemente mestruato e non potendo sfogarsi né col padre, né col fratello maggiore o con i guerrieri da lui comandati, sfogava la sua rabbia su chiunque gli fosse inferiore, il che comprendeva la servitù, la gente in paese e suo fratello minore. Io probabilmente contavo come uno di loro, ma doveva adottare metodi più raffinati per offendermi dato che ero sotto l’ala protettrice dei suoi superiori.
    «Non hai dimestichezza a maneggiare cose grandi, cugino?» domandò con un sorrisino di scherno.
    Mi venne voglia di insultarlo, era irritante come poche cose al mondo: probabilmente era ancora un verginello che pure con una donna nuda davanti non avrebbe saputo cosa fare, eppure veniva a fare battutine di quel genere a me? A me che se solo avessi voluto avrei potuto avere una donna diversa ogni notte (nel mio tempo e, perché no, anche in questo)?
    «Mai quanto te con le cose taglienti» gli risposi trattenendo gli insulti e accennando al braccio su cui stava comparendo un livido violaceo piuttosto grosso. «Fai più attenzione, altrimenti saremo in due a non poter maneggiare cose grandi. E ti assicuro che, per quanto parenti, non penso avrei voglia di darti una mano in quel caso?».
    L’arrivo della servetta mi salvò per un pelo da qualsiasi sua reazione. Diventò paonazzo e se ne andò senza aggiungere niente: nessun uomo ha voglia di parlare di abilità manuali davanti ad una donna.
    Rimasi solo con quel mucchio di aggeggi per scrivere, ma ero convalescente e quindi avevo tempo da buttare. Disposi la pagina e preparai l’inchiostro. La cosa buona era che essendo mancino e dovendo scrivere in maniera tradizionale –dall’altro al basso, da destra a sinistra- non mi sarei impiastricciato le mani. Rimaneva da vedere se fossi riuscito ad evitare la stessa fine anche al foglio.
    Avevo passato un giorno intero a tormentarmi quando mi ero reso conto di essermi preoccupato solo di ciò che era capitato a me e di non aver pensato a cosa poteva essere successo nel mio tempo. Tutto poteva essere: magari il tempo si era fermato nel ventunesimo secolo, in attesa del mio ritorno, oppure no, ma in quel caso non sapevo come scorresse. Un giorno nel 1500 equivaleva ad un giorno nel mio mondo? Oppure il tempo era calibrato in maniera diversa?
    Alla fine decisi di pensare all’ipotesi peggiore: se ero nel 1500 da più di tre settimane, allora ero scomparso da altrettanto tempo nel 2000. Dovevo sbrigarmi a trovare un modo per tornare indietro, ma era anche vero che non avevo nessun indizio per capire come fare, e prima di tutto dovevo assicurarmi un posto e una vita più o meno sicuri in quel mondo se non volevo mettere piede fuori casa e venire sgozzato appena giravo l’angolo.
    Così mi ero imposto la calma, perché l’avventatezza mi avrebbe ucciso, ma mi ero anche dato delle priorità, cioè che prima veniva il mio ritorno a casa e poi tutto il resto. Se la possibilità di usare la magia e tornare nella mia epoca avesse richiesto di tradire i Morikawa e andare dai Tokudaiji avrei dovuto farlo. Non mi piaceva l’idea, ma non potevo avere dubbi su quel punto.
    Scrivere mi sarebbe servito a schiarire le idee. Mi erano accadute tante di quelle cose in poche settimane che avevo bisogno di fare ordine, inoltre fingevo di essere un’altra persona, ventiquattro ore su ventiquattro dovevo modificare il mio carattere e la mia parlata e non avevo più il mio nome. Forse avevo paura di dimenticare chi fossi veramente. Chiesi “carta e inchiostro” perché pensavo di tenere un diario.

    Il giorno tanto temuto arrivò.
    Avevo passato tutta la settimana a chiedermi come avrei affrontato la mia prima giornata di addestramento perché, parliamoci chiaro, io non sapevo combattere. Il nemico più temibile che io abbia mai affrontato è stato uno scarafaggio grosso quanto il mio pugno e non ho usato molte armi all’infuori di uno spray anti-insetto. Certo, avevo preso qualche lezione in vista di alcune scene di combattimento in alcuni film, ma un conto è saper tenere una spada e fare qualche mossa davanti alla telecamera, un conto è usare un arma con la consapevolezza che è l’unica cosa che impedisce all’altro di sbudellarti.
    Non volevo farmi del male, non volevo sudare tutto il giorno nei vestiti da allenamento e l’idea di dover faticare mi faceva sentire stanco ancor prima di cominciare! Quel che mi convinse, fondamentalmente, era che il sudore fosse preferibile alla morte. Quelli non erano anni in cui si dava tanto spazio alla diplomazia, o meglio, il capo famiglia dei Morikawa forse era nella posizione di parlamentare, ma il nemico che mi fossi trovato in faccia una volta fuori di casa non mi avrebbe dato nemmeno il tempo di dire “parliamone”.
    Venni presentato al gruppo insieme ad altre due nuove reclute. Uno di loro si chiamava Kazuo e solo per il fatto che aveva un nome simile al mio lo sentii subito affine, ma a parte quello, eravamo diversi come il sole e la luna. Era un energumeno alto ben più di me: ma da dove spuntava un giapponese così in un epoca in cui la popolazione superava a fatica il metro e sessanta?
    Ci misero subito in mano delle tachi da allenamento, quindi non affilate. Quelle erano armi talmente antiche che io non le avevo mai viste da vicino nemmeno in un museo, anche se ammetto di non aver mai prestato attenzione a nulla in quei pochi musei che ho visitato. Negli sceneggiati in costume ho usato quasi sempre le katana: sono ben riconoscibili da tutti e l’arte della loro fabbricazione è sopravvissuta negli anni, mentre le tachi sono pezzi d’antiquariato pregiato. Se fossi riuscito a riportarne una a casa avrei potuto rivenderla per un sacco di soldi…
    Tornando al combattimento, dovevamo fare una dimostrazione delle nostre capacità, il che avrebbe significato ben poco nel mio caso, ma non volevo fare la figura dell’imbecille fin dal primo giorno, così decisi che in un modo o nell’altro avrei perlomeno tentato di zampettare in giro evitando gli affondi.
    Ovviamente la mia era una speranza sciocca, non avevo idea di come fosse uno scontro reale: al primo incrociarsi di lame sentii un brivido salirmi sulla schiena per lo stridere del ferro e in un attimo mi resi conto che sarei morto sul serio se quell’affare fosse stato affilato e se mi avesse preso nei punti sbagliati. Allora ebbi paura, una paura gigantesca che cancellò ogni altra emozione: quella fu la prima volta in cui in me, uomo del ventunesimo secolo, si risvegliò l’istinto di conservazione, un istinto primitivo e selvaggio fortissimo che prima non avevo mai avuto bisogno di sentire. In un attimo l’adrenalina cominciò ad aumentare e tutta la mia attenzione si focalizzò sul bestione che avevo davanti e sulla sua lama. Non sapevo cosa farmene della mia, ma usai tutto ciò che ero in grado di fare per difendermi: lo guardavo, percepivo i suoi movimenti e li evitavo. Sbalordii persino me stesso.
    Andai avanti per lunghissimo tempo ad evitare e parare colpi. Quando Kazuo mi diede un attimo di tregua, ebbi il tempo di realizzare che ero sudato marcio, che i muscoli mi facevano male per l’eccessivo sforzo e che avevo il fiato talmente corto da far pensare ad un attacco d’asma. I guerrieri mi stavano gridando di smetterla di scappare e di affrontare il mio nemico. Ma come? Lo squadrai e ripensai a quei momenti di lotta: questo ragazzo era grosso e forte, ma non aveva tecnica -come me del resto- e inoltre non era rapido, infatti non avevo avuto grossi problemi a sfuggirgli. Dovevo sfruttare in qualche modo la mia piccolezza e metterlo fuorigioco per potermi afflosciare in un angolo a riprendere fiato.
    Ad un suo ennesimo attacco, schivai accovacciandomi a terra. A quel punto mi trovai davanti agli occhi le sue gambe, del tutto prive di difesa, quindi pensai di allungare la spada per dargli un colpo alle caviglie: se la lama fosse stata reale gliele avrei affettate. Non avevo calcolato però che la portata del suo braccio era più lunga della mia, così falciai l’aria e, rimanendo accucciato come una ranocchia, mi ritrovai la punta della spada di Kazuo puntata alla gola. «Ha vinto Kazuo! Bravo Kazuo!» applaudivano alcuni.
    Un gruppetto ridacchiava di me, ovviamente tra loro c’era anche Nagatoshi. «Non te la prendere cugino, sarebbe potuta andare peggio» mi disse divertito
    «Illuminami» sbuffai sbilanciandomi all’indietro e lasciandomi cadere col sedere a terra: i muscoli delle mie gambe imploravano pietà.
    «In quella posizione poteva decidere se tagliarti la testa o il braccio. Ha scelto la testa e in uno scontro reale te la saresti cavata in un attimo senza sentire niente, ma se avesse scelto il braccio, stai pur certo che saresti sopravvissuto a lungo per sentire tutto il dolore possibile prima di morire dissanguato».
    Quali soavi prospettive! Ma dovevo aspettarmelo: dalla bocca di Nagatoshi non usciva mai niente di soave, almeno non quando parlava con me.
    Il mio avversario mi allungò la mano, offrendosi di aiutarmi a tornare in piedi. Sarei rimasto volentieri in mezzo alla sabbia a boccheggiare come una trota morente, ma in quanto al ridicolo, me n’ero coperto a sufficienza per quel giorno. «Grazie» sospirai ancora con il fiato corto
    «Di nulla, sei bravo» fece questi ed io lo osservai di sbieco, sicuro che mi stesse prendendo per i fondelli e nemmeno troppo velatamente
    «E’ vero! Hai molto da migliorare, certo» fece Toshinori avvicinandosi a noi con un sorriso. «Ma hai dei riflessi niente male, si può cominciare a lavorare su quelli». Non so se da un uomo del futuro si aspettasse qualcosa di più e se l’avevo deluso non lo diede a vedere. «E’ anche vero che Kazuo non ha una stazza particolarmente adatta ai combattimenti rapidi» rise dando una pacca sulla spalla all’altro. Tra tutti e due era questi ad essere più massiccio, ma anche Toshinori non scherzava. «Mettiamo alla prova i tuoi riflessi contro qualcuno di più abile?»
    «Ma no, sono sicuramente scarso» cercai di sminuirmi per evitare di rimettermi a combattere, ma il mio fu un tentativo vano: mi toccò dimostrare la mia incapacità altre due volte.
    Uscii a pezzi da quella prima giornata. Tre combattimenti di allenamento in cui non avevo né battuto, né ferito, né sconfitto nessuno non erano un risultato grandioso in un periodo in cui gli scontri armati erano all’ordine del giorno. Era anche vero che –a parte il colpo di grazia- io non avevo ricevuto nemmeno un graffio, quindi in uno scontro vero sarei stato un cadavere molto pulito! Comunque, essendo stato un allenamento, il mattino dopo mi sarei dovuto preoccupare solo dei dolori muscolari e non degli ematomi. Magra consolazione.

    Passarono due settimane in cui feci allenamenti tutti i giorni, senza sosta. Non sapevo nemmeno se fosse sabato o mercoledì, non c’era alcuna differenza dato che a quei tempi non conoscevano il weekend di riposo.
    Toshiaki tutte le sere mi aiutava a mettere degli unguenti sulle ferite e sulle sbucciature, mentre Fūko chan preparava dei pastrocchi di erbe per fare degli impacchi da mettere sui lividi più grossi. La servetta era molto graziosa e sembrava essersi affezionata a me dopo che avevo difeso lei e un paio di altri servitori dai maltrattamenti di Nagatoshi. Sospettavo che si fosse presa una cotta –nonostante i lividi e le sbucciature fossero molto poco sexy- e probabilmente, se avessi voluto, avrei pure potuto approfittarmene; ma per quanto carina fosse, ogni giorno ero sempre più malconcio e troppo stanco per voler fare altro movimento fisico.
    Tra l’altro avevo altri problemi a cui pensare. Combattevo ogni giorno, certo, ma c’era anche il fatto che mangiavo molto meno di quanto il mio stomaco del ventunesimo secolo fosse abituato e poi faceva sempre più freddo: l’inverno irrigidiva sempre di più le temperature e in quella casa ovviamente non era previsto alcun impianto di riscaldamento. Avrei dovuto aspettare parecchio tempo prima di vedere l’elettricità, figuriamoci la climatizzazione! La notte io e Toshiaki cominciammo a dormire nello stesso futon ammassando tutte le nostre coperte e dormendo abbracciati per scaldarci. Era come avere un fratellino minore e con il gelo che si sentiva fuori non me ne fregava un accidente di dormire abbracciato ad un altro ragazzo: la notte bramavo il calore molto più del cibo.
    Una notte maledissi chiunque nella mia testa per non aver fatto i bisogni prima di essere andato a dormire e alla fine lo stimolo fu talmente forte che mi decisi a sgusciare fuori dalle coperte. Spesso ci dimenticavamo i pitali prima di andare a dormire e infatti in camera non c’era. Presi la coperta del primo strato e me la misi sulle spalle per poi aprire le porte scorrevoli che davano sul ballatoio del cortile interno: i pitali erano lavati nelle cucine e messi ad asciugare sul ballatoio. Richiusi la porta per non far entrare il freddo e feci per zampettare rapidamente a recuperare il nostro, ma notai che c’era una luce accesa nella prima sala di ricevimento degli ospiti, dall’altra parte del cortile. Era molto tardi e a quell’ora di solito nessuno era sveglio, quindi mi incuriosì vedere che qualcuno era ancora in piedi. Camminai lentamente sul terzo listello di parquet da sinistra (avendo dovuto recuperare il pitale molto spesso durante la notte, avevo scoperto che lungo quel cammino, il legno scricchiolava pochissimo) e mi accucciai con cautela a lato delle porte scorrevoli della sala.
    «Mi auguro che il viaggio sia stato tranquillo» sentii la voce di Morikawa
    «Siamo ben scortati e sappiamo di non aver nulla da temere in queste terre, non siamo noi il nemico» rispose uno sconosciuto
    «Nessuno è un nemico»
    «Amico mio, so che tu insisti con la tua linea diplomatica, ma sai anche tu che siamo agli sgoccioli: la tensione sta raggiungendo il culmine, presto o tardi basterà un incidente qualsiasi per scatenare la rivolta»
    «Non possiamo permetterlo. Non possiamo» lo sentii opporsi con veemenza. «Hai sentito anche tu le notizie che arrivarono quando i Tokudaiji cominciarono a conquistare i territori adiacenti»
    «Orribili, certo, ma»
    «”ma” che cosa? Amico mio, parliamo di uomini uccisi a centinaia, donne rapite, figli orfani, popolazioni ridotte alla fame. Noi dobbiamo trovare una soluzione pacifica»
    «Parleremo domani, ti dispiace? Sono stanco, questi lunghi viaggi non sono più adatti a quelli della nostra età» lo sconosciuto sviò il discorso, addolcendo il proprio tono di voce
    «Ma certo, i ragazzi dormono nella stanza a fianco, per stasera ti farò accomodare qui, domani ci sistemeremo meglio».
    Li sentii che si alzavano in un frusciare di kimono e cuscini, quindi mi affrettai a tornare indietro. Afferrai il pitale e tornai in punta di piedi nella camera. Mentre svuotavo la vescica mi maledissi: mi ero gelato il culo lì fuori solo per scoprire che erano arrivati degli ospiti durante la notte, bella scoperta! Ero proprio un fesso.

    Il mattino seguente nessuno venne a svegliarmi, quindi continuai a dormire imperterrito fino a metà mattina. Mi alzai quando ormai la luce era troppo forte per continuare a dormire. Mi vestii e consumai una rapida colazione nella stanza. Mentre mangiavo, un inserviente mi avvisò che per quel giorno ero stato esonerato dagli allenamenti ed ero libero di fare quel che volevo. Ormai erano svariate settimane che non provavo la gioia tipica di quando ho un giorno libero dal lavoro, peccato che mi mancassero i miei soliti passatemi: manga, videogiochi e patatine.
    Decisi di andare al villaggio, dovevo cercare del materiale per farmi delle altre mutande, inoltre volevo dare un’occhiata al Giappone in cui ero finito. Ero curioso di vedere come si viveva e com’erano fatti i centri abitati, non ricordavo molto di ciò che avevo visto al mio arrivo lì.
    Scrissi qualche riga sul foglio che portava la data del giorno prima, completando la pagina di diario, dopodiché andai nell’ala sud della villa e salii le scale per andare a cercare Kazuo nelle piccole stanzette dove risiedevano alcuni degli uomini del piccolo esercito dei Morikawa. Ero curioso di vedere quel mondo, ma non ero scemo: ero ancora incapace con la lama, al punto che mi avrebbero ucciso senza difficoltà, ma portando Kazuo con me avrei avuto una guida per non perdermi, un compagno per guardarmi le spalle e un alleato massiccio con cui la gente avrebbe difficilmente attaccato briga. E dire che lui era un ragazzo tanto tranquillo. Non era un gigante buono, anzi, se doveva tirarti un ceffone te lo dava e se doveva difendersi lo faceva senza alcuna pietà per il suo nemico, ma non era tipo da cercare la rissa e parlava in maniera gentile a confronto degli altri compagni che erano l’equivalente cinquecentesco di un branco quindicenni ribelli e sboccati.
    «Kazuo kun, ci sei?» domandai affacciandomi alle camerate
    «Ehilà Kazunari» salutarono alcuni compagni d’arme. «Hanno dato il riposo anche a te?»
    «Finalmente» mi limitai a rispondere. Erano simpatici, non avevo nulla contro di loro, però non sono mai stato bravo nelle relazioni pubbliche.
    «E’ qui che sta sistemando il futon» risero dalla stanza infondo. «Kazuo! Ti cercano!».
    Il ragazzo si affacciò al corridoio con in braccio alcune coperte. «Kazunari, buongiorno» sorrise. «Mi cercavi?»
    «Volevo fare un giro al villaggio, da quando sono arrivato non sono mai uscito dalla villa, ho voglia di andare un po’ in giro» gli spiegai. «Però mi serve qualcuno del posto, ti va di accompagnarmi?»
    «Ma certo, finisco qui e andiamo» annuì tutto contento.
    Parlava spesso del villaggio, ci abitavano le tre sorelle con le quali era cresciuto, le uniche parenti che gli fossero rimaste. Una sapeva cucire e guadagnava qualcosa facendo rammenti e piccoli lavoretti, un’altra faceva le consegne per alcuni negozi, mentre la più piccola andava ancora a scuola. Per quanto ognuna facesse del suo meglio, era il salario da guerriero di Kazuo che manteneva tutti quanti.
    Un’ora dopo eravamo sulla strada per il centro abitato portando con noi un mulo e una lista di cose da comprare che ci era stata data da Haruko, che era una specie di governante alla villa, la signora suprema della cucina: dato che andavamo fino al villaggio aveva deciso di sfruttarci e farci comprare quel che serviva, così da non dover mandare qualche inserviente o le servette che erano più utili a casa in quel momento, dato che c’erano ospiti.
    Io però non avevo visto facce nuove, ma era anche vero che non avevamo incrociato nessuno per i corridoi della villa o nello spiazzo. Ovunque fossero i Morikawa e i guerrieri non a riposo, non erano lì quel giorno.
    «E te lo tiene bene?» domandava Kazuo lungo la strada
    «Certo che sì, hai visto cosa ho fatto l’altro giorno?»
    «Oh sì, pazzesco! Non ho mai visto nessuno fare una cosa del genere» disse guardandomi sbalordito. Durante l’allenamento del giorno prima avevo schivato un colpo e mi ero fatto indietro con un backflip: era una delle poche cose acrobatiche che sapessi fare e aveva stupito tutti, compreso Toshinori. «E dici che è tipico del tuo paese»
    «Sì, per quello ho bisogno di questo indumento» annuii, stavo cercando di spiegargli l’utilità delle mutande: non avrei mi fatto backflip senza indossarne un paio. «E’ specifico della nostra zona perché anche quella mossa è delle nostre parti»
    «Da come lo descrivi sembra che i combattenti da te volino e saltino tutti»
    «Più o meno» risposi stringendomi nelle spalle. Mentire a Kazuo non era divertente come con Toshiaki. Ci credeva quanto il bambino, ma non avevo voglia di raccontargli bugie, non a lui. Avendo cominciato l’allenamento insieme, eravamo un po’ come compagni di classe: eravamo molto diversi, quindi ciò in cui lui riusciva a me non veniva e viceversa, allora cercavamo di aiutarci e di compensarci durante gli allenamenti. Apprezzavo la sua compagnia, faceva poche domande e non era eccessivamente chiacchierone.
    Il villaggio mi fece una strana impressione. Molte case erano costruite di sola paglia e poco legno per tenerla insieme, i tetti sembravano ciuffi d’erba gialla pronta a prendere fuoco da un momento all’altro. Alcune costruzioni invece erano soprattutto in legno, sapientemente incastrato come da regola dell’architettura giapponese. Le strade non erano cementificate, chiaramente, ma non c’era nemmeno un acciottolato o una lastricazione rudimentale, era solo terra. C’erano sentieri più larghi e calpestati nelle due vie principali, poi c’erano sentierini meno chiari, alcuni poco visibili e coperti dalle foglie secche. Pensavo di essere finito in qualche villaggio sperduto dell’africa nera, invece ero nel mio paese, in Giappone, il paese che nel mio mondo era la seconda potenza mondiale.
    Come prima cosa passammo a casa di Kazuo. Girare per le stradine delle case popolari fu un vero trauma. Gli odori erano meno forti della prima volta perché il freddo gelava ogni cosa, ma non poteva comunque nascondere del tutto la puzza di feci, quella degli animali nei cortili o l’odore di legna bruciata. Quelle case ovviamente erano messe peggio della villa in quanto a spifferi, ma erano spesso ad una stanza unica, quindi le persone dormivano lì dov’era acceso ancora il fuoco del pasto serale. Anche per questo le case andavano a fuoco facilmente. Non c’era solo la guerra ad attentare alla vita delle persone.
    Noi arrivammo all’ora di pranzo e nessuna delle sorelle era in casa. Preparammo del riso e una zuppa con dentro un po’ di avanzi: i sapori cozzavano tra di loro in maniera quasi disgustosa, ma era un pasto più succulento di quello che mangiavamo nei giorni di allenamento, quindi spazzolammo tutta la pentola senza lamentarci di nulla.
    Dopo aver bevuto un pochino di sake da un vecchio otre, ci rilassammo davanti al fuoco su cui avevamo cucinato, aspettando che morisse per poter lasciare la casa in sicurezza. Avrei pagato oro per un fuoco così davanti al letto la sera, ma rischiavo di morire bruciato, quindi a malincuore accettavo il mio gelido destino. Fissai le fiamme annotandomi mentalmente di abbracciare il mio climatizzatore e di trattarlo bene una volta che fossi tornato.
    Oltre al fuoco, anche il sake ci aveva scaldato, così ci rimettemmo in strada belli pimpanti, pronti a fare la spesa. Prendemmo il riso, comprammo un paio di frutti e alcuni tessuti. Era lì che stavo rovistando nella vana speranza che mi venisse qualche idea brillante: non avevo fatto caso che le mutande si reggevano grazie agli elastici e di certo non avrei trovato fasce elastiche con cui cucirmene un paio, quindi dovevo trovare una soluzione alternativa, perché in inverno gli indumenti ci mettevano molto ad asciugarsi e non mi andava di affidare alle servette il mio intimo solo perchè al calore della cucina sarebbe stato asciutto più in fretta, quindi avevo urgente bisogno di uno o due ricambi.
    Proprio mentre io capovolgevo tessuti e nastri, e Kazuo mi guardava imbarazzato notando gli sguardi perplessi della padrona del negozio, delle persone armate entrarono dalla porta. «Dov’è il proprietario?» chiesero ad alta voce, come se il posto fosse loro
    «Signori, sono io. Ditemi, che posso fare per voi?» domandò la donna avvicinandosi a loro a capo chino, con fare ossequioso. Era abbastanza spaventata, il che mi suggerì di rimanere nascosto dietro una pila di stoffe.
    «Sequestriamo il negozio» rispose un altro
    «Come? Signori, che ho fatto?» squittì la donna allarmata
    «Taci donna, esci di qui» fece il primo spintonandola verso l’uscita. «Anche tu garzone, fuori» dissero verso Kazuo.
    Il mio compagno lanciò un’occhiata nella mia direzione senza vedermi, quindi si inchinò e si avvicinò alla donna. «Signora usciamo, è meglio»
    «No, vi prego! Non potete togliermi la bottega» aveva cominciato ad implorare alzando la voce per la paura
    «Falla stare zitta o ci penseremo noi» asserì serio quello che doveva essere il capo
    «Lei è accusata di aver venduto ai ribelli del Signore di queste terre. È in combutta con i sovversivi, quindi per legge la priviamo di ogni mezzo per appoggiare la causa di questi individui che lottano contro la pace dei Tokudaiji» spiegò un terzo, intanto altri due cominciavano a girare per lo spazio angusto della bottega, guardandosi in giro.
    Per non farmi scoprire mi nascosi sotto un tavolo di stoffe spiegazzate che mi avrebbero coperto. Non sapevo bene perché mi fossi nascosto o che cosa intendessi fare una volta lì sotto: non li avrei certo attaccati per difendere la signora, quindi perché rischiare di farmi scoprire ed essere così sospettato di volerli prendere alla sprovvista? O magari di essere uno dei ribelli! (cosa quasi vera, tra l’altro) Non sarebbero andati molto per il sottile e io non ero ancora capace di difendermi a dovere, quindi perché quella mossa?
    Il sake. Doveva essere colpa del sake.
    Ad un certo punto, uno del gruppetto armato cacciò un lamento e cadde a terra stordito. «Che succede? Cos’è stato?» domandarono i compagni accorrendo. Il tizio era caduto con la faccia rivolta verso il mio tavolo, se non fosse stato privo di sensi mi avrebbe visto e avrebbe avvisato gli altri.
    Altri passi si aggiunsero a quelli del gruppo armato, grida di battaglia e di ordini e sentii lo stridere insopportabile delle lame. Alzai gli occhi al cielo perché quello sicuramente non era il mio giorno fortunato: volevo solo un paio di mutande, era chiedere troppo?
    Dopo alcuni momenti di confusione e di battaglia, un ferito venne a sbattere contro il tavolo e lo rovesciò rivelandomi a tutti. Per un attimo non vidi niente perché alcuni lembi di stoffa mi cascarono sulla testa e mi presi un mezzo infarto quando, tolto l’ultimo strato di lino ruvido, mi trovai una lama a pochi centimetri dal viso. Ci vollero pochi secondi per capire che non era puntata contro di me, ma era ancora in mano al tizio che era rovinato sul tavolo.
    Tutti urlarono a tutti della mia presenza, probabilmente nessuno dei presenti mi riteneva dalla sua parte dato che non sapevano che fossi lì, quindi presi la lama che avevo davanti al naso e la tirai verso di me, in preda al panico: se non mi fossi difeso sarei morto su due piedi, per mano dell'una o dell'altra parte. Mi tagliai immediatamente le palme delle mani: non era una tachi da allenamento, ma una reale e ben affilata. Trattenni a stento un grido di dolore, ma non rinunciai a prendere con me l'arma anche perchè con la coda dell'occhio intuii che una figura si stava avvicinando velocemente per scagliarsi contro di me. L'adrenalina provata durante i combattimenti di allenamento non era nulla in confronto a quella che mi spinse a muovermi in quel momento: senza aver ancora impugnato a dovere la tachi del nemico stordito, gattonai rapidamente sotto un tavolo vicino, ma chiunque mi stesse inseguendo ci si avventò contro e lo ribaltò immediatamente. Gattonai sotto il terzo tavolo ancora stringendo nella mano destra la lama. Avevo il fiato corto nonostante non avessi ancora fatto nessuno sforzo fisico, sentivo la gola secca e gli occhi che mi bruciavano.
    Ancora una volta il mio inseguitore rovesciò la mia copertura mentre passavo sotto il quarto e ultimo tavolo. Il ginocchio che mi ero ferito quasi due mesi prima cominciò a farmi male e anche l’altro non prese bene il fatto di dover sbattere contro il legno ad una simile velocità. Nel frattempo mi decisi ad impugnare la spada dalla parte dell’elsa, cosa non facile perché dai tagli avevo cominciato a perdere un sacco di sangue e tutto ciò che toccava veniva macchiato e diventava viscido. Sul momento non ci feci caso comunque, perché saltato via il quarto tavolo mi ritrovai totalmente scoperto. L’uscita era vicina però, avrei dovuto resistere il tempo di qualche parata e sarei fuggito. I battiti del mio cuore mi rimbombavano nelle orecchie e quando riuscii a bloccare il primo attacco del mio nemico, l’affondo fu talmente violento che mi sembrò di sentire la percossa come se fosse stata data direttamente sull’osso del mio braccio invece che sulla spada. Rimase a guardarmi con una faccia spaventosa, probabilmente la stessa espressione che ha un leone quando sta per uccidere una lepre, ed io avevo cominciato a lacrimare, il che non contribuiva a rendermi un nemico temibile. Non sapevo nemmeno per cosa fosse quel pianto: paura? Dolore?
    Fui fortunato che uno dei nuovi arrivati -vestiti di scuro, incappucciati e col viso coperto- attaccò alle spalle il mio aggressore, affondando la propria arma nella sua schiena. L'espressione feroce che aveva fino a poco prima si sciolse in un misto di incredulità e sofferenza. Mi gridò in faccia il suo dolore e prima di accasciarsi sputacchiò del sangue sul mio kimono.
    Estratta la lama dal corpo del nemico che mi morì addosso, l’attaccante in abiti scuri mi fissò per qualche secondo ed io lo guardai a mia volta: ero sicuro che mi avrebbe infilzato come uno spiedino ed io non avrei mai fatto ritorno a casa.



    ¹ il guerriero delle mutande
    ² Il guerriero J
    ³ Significa “bravo”, “capace”, “dotato”
    4 Il guerriero Keio, il nome dell’università di Tokyo in cui ha studiato Sakurai Sho
    ⁵ "chan" è un suffisso usato soprattutto per i bambini o comunque come vezzeggiativo, poco adatto ad un samurai insomma
    ⁶ Il guerriero pescatore
    ⁷ A seconda del kanji usato “ryōshi” può significare pescatore o cacciatore
    ⁸ Nell’epoca Tokugawa (1603-1868), chiamata così dagli omonimi shōgun che si sono succeduti negli anni, la società giapponese era divisa in quattro classi molto rigide secondo il sistema chiamato mibunsei: samurai, contadini, artigiani, mercanti (in ordine di importanza). la classe di appartenenza si ereditava, quindi non era prevista alcuna mobilità o scalata sociale.
    ⁹ E' la pietra su cui si prepara l'inchiostro
    10 Il panno da mettere sotto il foglio, serviva a non macchiare il tavolo con l'inchiostro che fosse eventualmente filtrato attraverso la carta

    Nel prossimo capitolo
    In quel momento speravo solo che si accorgesse che ero disarmato, innocuo e inutile: la mia vita non valeva nulla in quel conflitto, quindi se mi avesse fatto il favore di lasciarmela gli sarei stato più che riconoscente.

    Sgranai gli occhi e di botto Ninomiya Kazunari sembrò sciogliersi nell’acqua calda come se fosse stato un cubetto di ghiaccio. Vidi la mia pelle chiara sulla quale ora spiccavano tutti i lividi e i graffi subiti fino a quel giorno: quelli non erano i segni di Ninomiya, erano di Morikawa.

    «Rivela la verità. Fai un annuncio pubblico, smettila di nascondere la sua esistenza»
    «Per quale scopo? Non ha alcun senso, anzi sarebbe più pericoloso. È molto più sicuro se continua a rimanere un segreto»
    «Per un matrimonio»

    Più leggo il titolo più rido. Mi spiace per Nino, ma sto morendo di risate nel leggere le sue disavventure (ehm... veramente sei tu quella che le scrive....). Però mi vengono anche i brividi, per gente come noi, finire in un tempo così primitivo dev'essere duro e un po' mi dispiace per Ninuccio. Ma apprezzo l'ironia e l'arrangiarsi con cui cerca sempre di cavarsela. E finora ce l'ha fatta, in qualche modo.
    Adesso però c'ha un uomo morente tra le braccia e rischia di diventarlo a sua volta, per mano di un tipo irriconoscibile... e poi chi sono i nuovi ospiti misteriori?
    Vorrei proprio sapere come va a finire! (ti ripeto che sei tu che la scrivi questa roba!)

    Edited by hika86 - 21/8/2013, 21:43
     
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    Il guerriero delle mutande è proprio sfortunato, voleva solo comprare un paio di mutande ma si è trovato il mezzo alla battaglia. Sono curiosa come andrà a finire !!!
     
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  12. hika86
     
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    Alè, erano sballate tutti i numeri delle note XD e ho anche trovato errorini qui e là, quindi ho giusto aggiunto un paio di frasi nella parte di combattimento al negozio u.u

    Povero il nostro guerriero mutandato ._.
     
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  13. hika86
     
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    Lo sappiamo che è un casanova il nostro Nino, dai u.u però non è uno stronzo, anche se fa strage di cuori non sembra essere uno che se ne approfitta ecco. Magari cerca il vero aMMore! XD

    Mi spiace per le mani >___< fa impressione anche a me!!
    Però scusa, la cazzata è sua: non si prende mai la spada dalla parte della lama! Ma era impanicato, aveva paura, etc... e ha fatto un errore che suppongo non ripeterà mai più. Speriamo solo non si sia affettato via della pelle, altrimenti chi gli ricuce le mani?
    (vero? vero? E' troppo caruccio *-* auguri nanaccio!!)
     
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    Sagi
    5. Scontro con la realtà
    Si dice che nei nostri ultimi attimi, vediamo scorrere davanti ai nostri occhi tutta la nostra vita. Balle.
    Se state tirando le cuoia nel nostro comodo lettuccio potrebbe anche darsi, ma se stanno per ammazzarvi senza preavviso no, credete a me. In realtà non so a cosa ho pensato in quel momento, ma sicuramente niente di complesso, anche perché certe cose accadono tanto rapidamente che non fai tempo a pensare “merda!” e succedono altre tre cose diverse.
    Sono qui a scrivere, quindi è logico che non sono morto. Non era la mia ora, per fortuna, ma in quel momento gli occhi della persona davanti a me non contenevano quella promessa di sopravvivenza, quindi è possibile che io abbia pensato proprio “merda!”. Non è questo gran pensiero per essere l’ultimo della propria vita, dev’essere per quello si racconta di veder scorrere la propria vita: è più poetico.
    Del mio avversario vedevo solo lo sguardo, il resto del viso e del corpo era nascosto dall’indumento scuro che lo avvolgeva. Ma anche se gli leggevo nelle pupille il desiderio di uccidermi, non lo fece: calciò senza alcuna pietà il corpo del morto che mi stava in grembo per levarmelo di dosso, quindi mi puntò la lama al petto. «In piedi» mi intimò. Alle sue spalle un collega, imbacuccato di nero anche lui, lo difendeva da un attacco.
    Mi alzai lasciando cadere a terra l’arma. Fu quasi doloroso perché il sangue aveva cominciato a coagularsi a contatto con l’aria e aveva reso appiccicosa la mia presa sull’elsa. Però anche tenere la spada in pugno era doloroso, perché il cuoio dell’impugnatura sfregava sulle estremità di pelle del taglio che avevo sul palmo.
    Lo sconosciuto passò alle mie spalle e mi puntò la lama al collo. Era alto quanto me, quindi non sarebbe stato impossibile sopraffarlo fisicamente, ma in quel momento speravo solo che si accorgesse che ero disarmato, innocuo e inutile: la mia vita non valeva nulla in quel conflitto, quindi se mi avesse fatto il favore di lasciarmela gli sarei stato più che riconoscente.
    «Abbiamo un ostaggio! Andiamo!» gridò agli altri lo sconosciuto. Qualcuno gli coprì la ritirata difendendolo dai guerrieri in armatura, di modo che potesse fare il giro del negozio indisturbato, tenendomi sempre l’arma contro la gola. Con un calcio aprì la porta sul retro.
    «Vi raggiungiamo subito» dissero alcuni dei suoi compagni e lasciarono che noi due uscissimo da soli.
    Mi spinse bruscamente nel cortile puntandomi sempre l’arma contro. «Cammina» ordinò pungendomi la schiena con la punta della spada. Non mi ferì, ma non fu nemmeno come ricevere una carezza, però non protestai e cominciai subito a muovermi.
    Uscimmo dal cortile e girammo a destra allontanandoci dalla strada principale dove Kazuo probabilmente era ancora in compagnia della padrona del negozio. Dopo la seconda svolta ci avvicinammo ad un alto steccato intorno al cortile di una casa. Lo sconosciuto abbassò leggermente la guardia, aiutandomi a eseguire i suoi ordini: avvicinare due casse di legno e impilarle. Dopodiché mi fece salire in piedi e scavalcare la staccionata cadendo malamente nel terriccio polveroso del cortile dall’altra parte. Lui mi seguì, atterrando con l’agilità di un felino.
    Pochi secondi dopo sentii dei passi pesanti e delle voci per la strada che avevamo appena abbandonato: gli uomini armati erano usciti dalla bottega e mi cercavano urlando. Mi venne chiusa la bocca con una mano e ascoltai gli uomini parlare tra di loro, dicendo di aver controllato in varie vie senza trovar traccia mia o del mio rapitore. Capii che avevano finalmente compreso che io non ero un ribelle, perché l’attacco era stato dei ribelli stessi e non avrebbe avuto senso auto-prendersi in ostaggio. Ma se non ero un ribelle e non ero nemmeno dalla loro parte, allora ero un Signor Nessuno, quindi decisero di lavarsi le mani della mia sorte e le loro voci svanirono in lontananza.
    «Va tutto bene? Ti sei ferito?» mi domandò il mio rapitore. Aveva rinfoderato la spada, ma anche senza quella minaccia mi sembrò di aver perso la capacità di proferire parola. Avrei voluto rispondere, ma non riuscivo ad emettere alcun suono, avevo addirittura l’impressione di non sapere più come si facesse a comandare alla bocca di muoversi e alla gola di emettere suoni. Non ero lucido a sufficienza nemmeno per chiedermi come mai quello che mi aveva minacciato di morte poco prima, ora mi stesse chiedendo se ero integro.
    «Ninomiya sama?» domandò ancora.
    C’era una sola persona che mi chiamasse così in quel mondo.
    Rie abbassò il tessuto che le copriva la parte inferiore del viso ed io la riconobbi. La ragazza posò lo sguardo preoccupato sulla mia figura rannicchiata nel terriccio del cortile. «Quanto di questo sangue è tuo?» chiese ancora, prima di aprirmi il kimono denudandomi il petto senza tante cerimonie. Ma non ero ferito e anche se non le riposi, lei capì che le macchie sulla parte superiore dei miei indumenti erano dovute al tizio che mi era candidamente spirato tra le braccia.
    Richiuse il kimono e prese le mie mani tra le sue costringendomi ad aprirle per mostrarle i palmi, cosa che si rivelò dolorosa ed ebbi l’impressione di perdere altro sangue. «Solo questo è tuo?» chiese ancora. «Ninomiya sama, rispondi» mi ordinò con voce dura, guardandomi severamente nel occhi.
    Provai ad aprir bocca, ma non emisi alcun suono. Solo quando mi strinse leggermente le mani feci un gemito strozzato chiudendo gli occhi. Feci per tirarmi indietro, ma lei mi trattenne per i polsi. «Ce l’hai la voce, quindi rispondimi: eri da solo? C’era qualcuno dei nostri con te? Queste sono le tue uniche ferite?»
    «Kazuo era già uscito prima dell’attacco» dissi infine. «Ho solo queste».
    Quando riaprii gli occhi, Rie mi aveva lasciato i polsi e aveva recuperato una borraccia da chissà dove, facendo cadere l’acqua sulle mie ferite. «Guarda, non sono molto profonde» mi disse quando la maggior parte del sangue fu lavato via, lasciando in vista la carne tagliata, viva e rossa. «Hai fatto una sciocchezza vero? Hai preso una spada dalla parte sbagliata» indovinò, mentre frugava dentro una piccola sacca. Era nera quanto i suoi indumenti, ecco perché non l’avevo vista. Tirò fuori una striscia di tessuto, la strappò in due e me la girò intorno alle mani. «A casa te le cureranno meglio, ma intanto vediamo se il sangue si ferma così» mi spiegò con voce tranquilla, quindi chiuse anche il secondo nodo.
    «Era pesante» mormorai con gli occhi fissi sulle bende. «Mi è caduto addosso e poi è diventato pesantissimo. Non faceva più alcuna resistenza»
    «È così quando le persone muoiono. Da te non muore nessuno?» disse Rie
    «Sì, ma tra le mie braccia…» farfugliai sbattendo le palpebre. «Così, nessuno prima»
    «Sei stato bravo Ninomiya sama» mi rincuorò la ragazza spingendomi a mettere i palmi delle mani l’uno contro l’altro, tenendomi ancora i polsi, con più gentilezza. «Hai cercato di salvarti con tutti i mezzi a tua disposizione, sei vivo, è questo che conta»
    «Non ho ucciso nessuno» le feci notare. Ne ero felice, ma in parte mi sentii in colpa perché tutto sommato ero dalla loro parte e non da quella degli uomini armati, quindi facendo fuori qualcuno li avrei aiutati.
    «Meglio così. Non sapevi chi avevi davanti, pensavi solo a salvarti la vita quindi avresti ucciso chiunque indiscriminatamente» spiegò con un sorriso rincuorante. «Sei stato bravo, Ninomiya sama. Ora torniamo a casa».
    Forse suonerà infantile, ma sentirmi dire di essere stato bravo mi rese tanto felice che avrei pianto.

    Tornammo a casa molto dopo l’ora di cena.
    Io e Rie mangiammo nella casa dei padroni del cortile dove ci eravamo riparati: conoscevano i ribelli e ci offrirono volentieri del riso con dell’uovo crudo da mescolare nella ciotola. Contando che all’epoca non esisteva il denaro e che la moneta di scambio era proprio il riso, ci offrirono un pasto regale.
    Dal villaggio uscimmo seguendo viuzze secondarie che Rie sembrava conoscere come le sue tasche anche al buio. Io inciampavo ogni tre passi: non erano asfaltate e non c’era illuminazione elettrica notturna, immaginatevi voi…
    Solo quando lasciammo il centro abitato per avviarci con più tranquillità lungo i sentieri della foresta, dalle tenebre spuntarono alcuni uomini. Mi accorsi di loro solo perché fu lei ad indicarmeli o perché parlavano o ci salutarono. Dopo una trentina di minuti di cammino, eravamo una nutrita compagnia che si inoltrava per i sentieri del bosco immerso nelle tenebre, roba che nel mio tempo non avrei fatto nemmeno per tutto l’oro del mondo a meno di avere una torcia, cosa di cui ero sprovvisto in quel momento. Si presentarono quasi tutti, ma io non conoscevo nessuno di loro. Non erano frequentatori dei quotidiani allenamenti di Toshinori. Molti non parlavano, camminavano in silenzio e non sembravano nemmeno fare rumore muovendosi, alcuni chiacchieravano a coppie o in piccoli gruppi, ma tenevano sempre la voce bassa.
    Quando fummo in vista della casa, la maggior parte di loro salutò Rie e si dileguò nell’oscurità, alcuni ci scortarono fino alla porticina di legno delle mura, ma dopo che la oltrepassammo non li vidi più. Entrammo al sicuro della villa e nello spiazzo c’era un fuoco acceso, davanti ad una delle due entrate ai lati della veranda anteriore della casa. Un piccolo braciere intorno al quale, infreddoliti, aspettavano Toshiaki, Yukino, la governante Haruko, Kazuo e gli altri due ragazzi che avevano cominciato gli allenamenti il mio stesso giorno. Non mi stupii solo di trovare loro (di cui nemmeno ricordavo il nome), ma anche di tutti gli altri.
    «Rie!» Toshiaki ci vide per primo e si alzò subito in piedi, attraversando di corsa lo spiazzo
    «Toshiaki sama!» esclamò Yukino preoccupata, vedendolo schizzare via.
    Il bambino saltò agilmente in braccio alla sorella, stringendola felice e sollevato.
    «Kazunari» dissero i miei compagni venendomi incontro. «Sei vivo! Temevamo fossi morto»
    «Non me lo sarei mai perdonato» disse Kazuo mettendosi in ginocchio e chinando il capo. «Kazunari, non avrei dovuto abbandonarti. O almeno sarei dovuto rientrare a difenderti, ad aiutarti nella ritirata. Mi sono comportato in modo così disonorevole»
    «Kazuo» gli dissi. Mi ero abituato a non usare alcun onorifico con i miei compagni d’arme. «Non sono arrabbiato, ma chiedimi scusa domani» cercai di spiegarmi stancamente
    «Kazunari sama, avrete freddo» pigolò Yukino. La giovane cameriera aveva tra le braccia una coperta di quelle che avevamo in camera io e Toshiaki. La ringraziai con un debole sorriso e me la misi sulle spalle, rendendomi conto in quel momento che la stanchezza mi aveva reso temporaneamente inconsapevole del freddo che in realtà mi faceva rabbrividire costantemente.
    «Yukino, vai a chiamare mio padre, il nostro ospite si è ferito» ordinò Rie con gentilezza. «Voi ragazzi, spegnete il fuoco e andate a riposare. Domani avrete gli allenamenti e avete bisogno di dormire»
    «Sì, Rie sama» dissero i tre con un profondo inchino
    «Ci vediamo domani mattina» li salutai io sforzandomi di fare un ultimo sorriso.
    Rientrammo in casa e Toshiaki scese dalle braccia della sorella per farci strada verso la camera. «Abbiamo avuto degli ospiti, sai Rie?» cominciò a dire. «Papà era arrabbiato che nostro cugino non fosse a cena con noi»
    «Mi scuserò domani» mi affrettai a rispondere. Quando era stato deciso il mio ruolo di cugino, Rie era già partita e l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era far saltare la mia copertura. Ma la ragazza non mi lanciò alcuna occhiata stranita e non cambiò espressione: o le era già arrivata la notizia o aveva una faccia da poker eccezionale!
    Yukino venne in camera per avvisarmi che sarei dovuto andare in camera del signor Morikawa per ricevere le cure, così lasciai i fratelli da soli e, sempre con la coperta sulle spalle, mi avviai lungo i corridoi fino alla stanza del padrone di casa. Era mezzo intontito dal sonno, ma il rincoglionimento non fu sufficiente a fargli dimenticare che mi doveva sgridare.
    «Da quando sei arrivato non fai altro che ferirti» mi fece notare con voce roca dal sonno
    «Sono desolato». Mi trattenni dal fargli notare che per me non era un gran sollazzo continuare a farmi male!
    «Tu e Kazuo non arrivavate più e Haruko ha dovuto arrangiarsi per la cena» continuò togliendo le bende e tastando le ferite
    «Mi spiace, non era nostra intenzione creare tanti fastidi». Tutto quello era successo solo per delle mutande, maledizione. Avrei dovuto arrangiarmi in qualche altro modo.
    «Domani hai l’allenamento vero? Non potrai impugnare alcuna spada per i prossimi sette giorni» mi spiegò pulendo le ferite e spalmandoci su una pappetta strana e dal forte odore, simile a spezie o erbe. «Non impugnare niente con forza, rischieresti di far riaprire le ferite. Terminato questo periodo credo tu possa riprendere gli allenamenti senza alcun problema, magari i primi giorni non esagerare» consigliò in tono dolce.
    Il signor Morikawa sembrava bipolare a volte, in lui c’erano due persone: il dottore e il capofamiglia; il primo era gentile e premuroso con chiunque, sorrideva, era paziente ed aveva sempre una parola rincuorante; il secondo era testardo, scorbutico, intransigente e ferreo nelle sue convinzioni.
    «Cerca comunque di svolgere i tuoi compiti in maniera impeccabile domani e vedi di essere pronto per la cena. Darò disposizione ai servi di cercare un vecchio kimono di Toshinori che sia adatto all’occasione, un tempo ha avuto anche lui la tua corporatura quindi dovrebbe andarti bene. Dovrai scusarti con gli ospiti per la tua assenza» mi spiegò mentre rifaceva la fasciatura con delle bende pulite prese dai suoi bauli pieni di boccette, tele e altre cianfrusaglie utili alle medicazioni.
    «Posso sapere chi sono?» domandai stringendo i denti per il dolore mentre le bende sembravano strizzarmi le mani tanto erano strette
    «Te ne ho già parlato credo. Ujie Masamune, è il capofamiglia degli Ujie. Lui e la figlia sono arrivati eri sera»
    «Sono i precedenti signori di queste terre, giusto?» chiesi piano
    «Hanno mantenuto i loro possedimenti perché non si sono opposti apertamente ai Tokudaiji, ma di fatto non controllano più nulla: riscossione delle tasse, leggi, giustizia… è tutto nelle mani dei nuovi padroni».
    Avrei voluto chiedere di più. La discussione che avevo origliato per caso la sera prima doveva essere stata proprio con questo Ujie Masamune, ma qualcosa mi diceva che il signor Morikawa non avrebbe preso bene il fatto che io avessi sentito qualcosa. Si fidava di me e per questo mi aveva accolto, ma era passato ancora troppo poco tempo perché potessi azzardare ad ammettere un’azione simile senza che cominciasse ad esserci qualche sospetto –seppur vago- sul fatto che io fossi una spia. Tra l’altro ero una persona fuori posto, anzi, fuori tempo, quindi cosa fosse venuto a fare il capo degli Ujie in quella casa non era affar mio. Soprattutto se per fare quella cosa era dovuto arrivare nel cuore della notte pur di non essere visto. La cosa mi puzzava, ergo: non dovevo interessarmene.
    Quando la medicazione fu conclusa ringraziai e tornai nella mia stanza.
    «Come ti stai trovando?» mi domandò Rie quando entrai
    «Qui dici?» chiesi richiudendo gli shoji e andando a sedermi sul futon. Lei a aveva già messo a dormire Toshiaki che respirava profondamente nell’oscurità. «A parte che continuo a farmi male -come tuo padre mi ha fatto notare- e che sembro sempre un pesce fuor d’acqua -come Nagatoshi non scorda mai di ricordarmi- direi che…» mi bloccai. Cosa stavo per rispondere? «Non lo so» conclusi senza nemmeno rendermene conto. «Non è che stia male: mangio tutti i giorni, ho un tetto sulla testa, coperte per dormire al caldo e un medico ogni volta che qualcosa non va. Ho anche fatto amicizia con qualcuno dei ragazzi, cioè dei guerrieri» mi corressi. Erano ragazzi anagraficamente, però non facevano niente che per me fosse definibile come “da ragazzi”. «Ma non posso dire di stare bene. Allenamenti massacranti, rischio di morte quotidiano, assenza di norme igieniche, di elettricità, di konbini, del cibo che mi piace, della mia casa, della mia famiglia, dei miei amici» elencai sentendomi sempre più sconfortato
    «Ti manca casa» annuì Rie nell’oscurità, c’era solo una candela quasi finita ad illuminare un poco la stanza
    «Non voglio che tu pensi che io sia un ingrato» mi corressi, riprendendomi da quel mio elenco devastante. Con lei ero sempre molto sincero, cosa che con suo padre non sarei mai stato, non fino a quel punto. «Anzi, non avrò modo di ringraziarvi a sufficienza per quello che state facendo. Tra l’altro non faccio che combinare guai. Ma se devo essere sincero non so se mi trovo del tutto bene» conclusi con un sospiro. «Almeno ci sono un po’ di persone con cui ho fatto amicizia. Kazuo mi piace. Anche Toshinori è interessante. E Toshiaki è un buon compagno di stanza. È un ragazzo sveglio»
    «E’ il mio preferito» fece lei.
    Mi trattenni dal farle notare che era l’unico fratello a cui rivolgesse la parola senza problemi. «Ci avrei scommesso» mi limitai a dire. «Certo non poteva essere Nagatoshi. Sfido chiunque ad averlo come favorito: è più acido del latte cagliato e ha la stessa simpatia di una sberla» sbuffai stiracchiandomi.
    Da qualche minuto ero tornato consapevole della stanchezza mostruosa che mi intorpidiva il corpo: dire che era stata una giornata schifosa non rendeva l’idea, volevo solo dormire e buttarmela alle spalle. Ma quella camera era stata delle sorelle -Akemi e Rie- il che mi fece sorgere un improvviso dubbio. «Dove devo dormire questa notte?» ebbi la forza di domandare. Avevo gli occhi già chiusi a metà e mi girava la testa per la stanchezza.
    Io non avrei avuto problemi: mi bruciavano le mani ed ero maledettamente a pezzi quindi non sarei certo saltato addosso a quella ragazza; ma sarebbe stato molto sconveniente per quell’epoca far dormire un uomo e una donna nella stessa stanza, a meno che non fossero sposati.
    «Qui, Ninomiya sama» rise piano lei. «Sei il cugino maschio e nostro ospite. Dormirai con Toshiaki, io andrò da un’altra parte». Aveva ragione, era lei l’ultima ruota del carro, non io. Anche se ero io ad essere estraneo lì dentro, mentre quella era casa sua.
    Annuii. «Ah, non ho più quel nome» dissi sbadigliando
    «Ninomiya?»
    «Ora sono Morikawa Kazunari. Sono tuo cugino, quindi puoi chiamarmi “Kazunari”, penso» spiegai stringendomi nelle spalle
    «O “cugino”» aggiunse Rie
    «No, quello no. Nagatoshi mi chiama così, e lo fa sempre con un tono che non mi piace. Mi sembra un insulto, più che un nome» spiegai.
    La giovane si alzò in piedi dando un’ultima carezza al fratello minore. «Non volergli male» mi disse piano. Il suo tono sembrava avere una nota di tristezza. O magari ero io che me la stavo sognando? «Soffre molto. Per lui è difficile mantenere la sua posizione all’interno della famiglia. Se non puoi essergli amico, almeno non essergli nemico»
    «Ehi, è lui che mi tratta come una pezza da piedi» grugnii. Non capivo quel discorso strambo: da quando in qua Rie si preoccupava per Nagatoshi? Ok che non conoscevo ancora bene quella famiglia, ma l’avevo vista parlare con il padre e con Toshinori molto raramente, e solo perché costretta dalle circostanza. Aveva un rapporto vero solo con Toshiaki, mentre di Nagatoshi non aveva mai parlato, né lui aveva mai nominato la sorella. Era un po’ come se l’uno non esistesse per l’altra e viceversa.
    «Una cosa?» chiese Rie disorientata andando verso la candela
    «Non importa, non importa» scossi il capo. «Mi cambio e vado a dormire, non riesco più a stare sveglio» tagliai corto
    «Buona notte, Ninomiya sama» fece divertita soffiando sulla candela
    «Non puoi» cantilenai al buio rendendomi conto che non vedevo più un accidenti, quindi non avrei mai trovato il kimono che usavo per dormire
    «Non devi dimenticare chi sei, Ninomiya sama. Farò attenzione davanti agli altri se ce ne sarà occasione, ma io continuerò a chiamarti così: è questo il tuo nome» spiegò.
    Aveva interpretato le mie paure di qualche settimana prima, i pensieri che mi avevano spinto a cominciare a scrivere. Quando mi girai nella sua direzione non vidi più nessuna sagoma. Strizzai le palpebre e scossi la testa.
    Mi infilai nel futon senza vestiti, ero troppo stanco per cercare altro da mettere e non sarei entrato nelle coperte pulite con addosso quella schifezza macchiata di sangue rappreso.

    Per la cena con gli ospiti mi ero aspettato di indossare chissà quale splendido kimono da cerimonia, elegante e colorato: dopotutto erano una famiglia di guerrieri, avrebbero potuto permetterselo. Ma a quanto pareva, ero finito in una famiglia di guerrieri, sì, ma tirchi, quindi mi ritrovai ad indossare un kimono che mi teneva caldo ed era comodo, ma non era particolarmente sfarzoso. I colori erano scuri e poco appariscenti, ma le cuciture erano ottime e il tessuto era liscio e ben trattato. Lo trovai in camera quando tornai dagli allenamenti di quel giorno, pronto da essere indossato. Quando feci per togliermi i vestiti in cui avevo sudato, mi guardai le gambe martoriate: avevo le ginocchia blu per colpa dei lividi fatti durante la fuga e avevo ematomi e graffi praticamente ovunque, dalle cosce alle caviglie. Ed erano tutti freschi.
    Quella mattina, Toshinori mi aveva sgridato di fronte a tutti i compagni: aveva detto che non esisteva idiozia più grande dell’afferrare una spada dalla parte della lama. Avrei voluto controbattere con qualche frase sarcastica, ma la pelle sul palmo della mano tirava a sufficienza da farmi pensare che, sì, afferrare una spada dalla parte della lama era l’idiozia più grande. Avrei passato tutto il giorno in castigo: mi avevano fatto mettere in posizione seiza in un angolo del cortile a fissare gli altri che si allenavano, perché il medico mi aveva prescritto assoluto riposo manuale quindi non potevo combattere. Nel mio angolino, da solo, avevo passato non so quante ore, poi avevo visto che nella veranda si stavano accomodando il signor Morikawa e un altro uomo un po’ più in carne che non avevo mai visto: dato che erano seduti allo stesso livello e che lo sconosciuto veniva servito prima del padrone di casa, avevo ipotizzato che potesse essere uno degli ospiti, Ujie Masamune stesso. Non che me ne fregasse qualcosa: non usava la magia, quindi non era utile al mio piano di “Ritorno al futuro”.
    Ad un certo punto le gambe avevano cominciato a formicolarmi e avevo anche un discreto freddo perché stare fermo all’aperto in Novembre non è un attività riscaldante e non avevo addosso niente di più pesante rispetto ai compagni che si stavano allenando. Allora ecco Rie venire in mio soccorso: l’avevo vista presentarsi nella veranda con vestiti molto semplici e rivolgere al padre qualche parola, con lo sguardo basso, dopodiché si era inchinata ed era venuta da me intimandomi di seguirla. Da quel momento avevo passato tutta la giornata ad allenarmi con lei. Erano stati tutti esercizi per i muscoli delle gambe: saltelli, salti, corsa, balzi di lunghezze non indifferenti, calci e combattimenti solo con le gambe. Le botte prese quel giorno e i loro segni si erano sommati ai tagli sulle mani e a tutti gli altri graffi, ematomi e ferite precedenti. Potevo denunciarli per violenza domestica?
    Guardando quei segni, decisi che mi serviva un bagno. Non che l’acqua li avrebbe lavati via, ma mi sentivo acciaccato e rattrappito dal freddo e dalla stanchezza; se mi fossi rilassato un poco, forse ogni cosa avrebbe fatto meno male, e poi dovevo ancora levarmi di dosso lo schifo che mi era rimasto dalla rissa del giorno prima. Il punto però era che eravamo a metà Novembre, faceva un freddo maledetto e non c’era nessuna doccia, ma solo un’eventuale bacinella di acqua fredda da buttarmi addosso nel cortile, cosa che non avrei fatto, non quel pomeriggio. Il sole era ancora abbastanza alto, quindi chiesi indicazioni ai domestici della casa per arrivare ai bagni termali che si trovavano lì vicino.
    Chiamarli bagni termali era certamente eccessivo, non c’era alcuna organizzazione con ingresso, spogliatoi e docce come io ero abituato, era solo una fonte di acqua calda che riempiva parecchi stagni formatisi tra le rocce. Si trovava dall’altra parte della collina rispetto a dove era costruita la villa dei Morikawa e anche dal villaggio ci voleva una buona mezzora a piedi, ma a quell’ora non avrei trovato nessuno: una volta usciti dall’acqua, i paesani ci avrebbero messo svariati minuti a tornare a casa, l’ora sarebbe diventata troppo tarda e non era consigliabile gironzolare per i sentieri dei boschi una volta calate le tenebre.
    Si potrebbe quindi pensare che, se non era sicuro per loro, non lo sarebbe stato nemmeno per me; la differenza sostanziale è che loro ci sarebbero andati per puro diletto, mentre io ci sarei andato per togliermi di dosso lerciume, sangue incrostato e cattivi pensieri. Accettavo di rischiare un po’ per tutto quello.
    Scelsi una pozza d’acqua piccolina e appartata, con massi alti a nasconderla, di modo da non correre il rischio di essere visto da nessun malintenzionato. Mi spogliai e misi i vestiti in un fagotto che nascosi sul primo ramo di un albero, mentre con me portai solo due panni puliti. Uno lo lasciai all’asciutto, sulle pietre, l’altro lo immersi nell’acqua con me per sfregarmi il corpo, non esistendo ancora alcuna comoda spugna.
    L’acqua era letteralmente bollente. Mi ci immersi con cautela e una volta che ebbi anche le spalle sott’acqua guardai il colore del cielo e la posizione del sole: era pericoloso rimanere troppo a lungo in tutto quel calore, ma non avevo orologi per controllare il tempo trascorso, quindi dovevo arrangiarmi con quello che avevo. Mi passai la tela ruvida sulle braccia e sul petto tirando via tanto di quel sudiciume da farmi venire le lacrime agli occhi: mi facevo schifo da solo e non ero abituato ad essere così sporco. Avevo il petto di colore rossastro prima di entrare in acqua, ma mi resi conto che era l’alone del sangue colatomi addosso, quindi bastò passarci sopra la mano e venne via. Trovai del sangue rappreso persino nell’ombelico!
    A lavare le gambe ci misi di più perché ovunque toccassi mi facevano male. Per ultime lasciai le spalle di modo da massaggiarle un pochino e potermi poi rilassare appoggiandomi alle rocce. Strizzai il panno, lo piegai e me lo misi dietro la testa prima di rilassarmi contro la pietra, di modo che mi facesse da cuscino. Alzai lo sguardo al cielo, controllando quanto tempo mi rimaneva, quindi feci un sospiro e mi imposi di rilassarmi.
    Quella notte avevo dormito forse due ore. Ogni volta che avevo chiuso gli occhi mi era tornato in mente il viso dell’uomo che era morto davanti a me, avevo ricordato l’orribile sensazione del suo corpo teso e pieno di vita che si rilassava completamente tra le mie braccia al sopraggiungere della morte e diventava d’improvviso pesante. Quella notte, più che in ogni altro momento, avevo desiderato ardentemente tornare a casa dove nulla di tutte quelle cose rappresentavano la quotidianità, ma quando avevo riaperto gli occhi la stanza davanti a me non era la mia, non era un camerino, non era casa di mia madre, né di Aiba o di Jun o di Ohno. Affranto e terrorizzato, mi ero chiesto se sarei mai tornato a casa e in quel momento, immerso nell’acqua, me lo domandai di nuovo, anche se con meno angoscia, forse grazie a Rie.
    Avevo passato il pomeriggio con lei che, mentre mi allenava, mi aveva riempito di domande sul mio tempo, sul mio Giappone. Parlare di cose a me familiari era stato fantastico: avevo provato una grande nostalgia dei discorsi su programmi televisivi, musica e concerti. Le avevo raccontato della mia famiglia, quella vera, e della mia seconda famiglia, gli Arashi. Rie mi aveva ascoltato piena di curiosità e meraviglia, alcune cose non era stato facile spiegarle, altre probabilmente non le aveva affatto capite, ma mi era stata a sentire e si era interessata ad ogni cosa. Insomma, dopo tanto tempo era stato Ninomiya a parlare, non il mio alter ego, Morikawa. E in quel momento mi sentivo ancora me stesso.
    Quando riaprii gli occhi vidi che mancava poco allo scadere del mio tempo, quindi mi staccai dalle rocce e feci per tirarmi fuori dall’acqua issandomi sulle braccia, ma un rumore di voci in avvicinamento mi spinse a tornare ad immergermi. Spostai sul panno asciutto un paio di pietre e delle foglie di bambù secche, di modo da nasconderlo, quindi acchiappai il panno bagnato portandolo con me, andandomi a nascondere in un anfratto, dietro la roccia più alta. Se si fosse scatenato un altro scontro sarebbe stata la volta buona che mi avrebbero ucciso: non avevo armi e nemmeno vestiti. Non che questi avrebbero potuto salvarmi, certo, ma in quella situazione cosa avrei potuto fare? Schizzare i miei avversari con l’acqua? Sai che paura...
    Con sollievo mi resi conto che le voci erano solo due e il cielo si stava facendo via via più scuro: se fossi riuscito a non farmi scoprire, avrei potuto filarmela quando fosse stato più buio, a patto di non fare rumore.
    «Sei sicuro che questo sia il posto migliore per parlare?» domandò una voce
    «Stai tranquillo. È troppo tardi perché qualcuno del paese venga qui» rispose l’altro. Sospirai rilassando i muscoli: era la voce di Morikawa san, ero salvo! «In casa invece a quest’ora tutti gironzolano ovunque per preparare la cena o per prepararsi ad essa, non avremmo pace. Allora, di cosa volevi parlarmi?».
    Conoscevo la persona con lui. O meglio, conoscevo la voce: era la stessa che avevo sentito parlare dietro gli shoji due notti prima, quando erano arrivati gli ospiti, quindi doveva appartenere ad Ujie.
    «Toshiya, ormai siamo una famiglia e sai che ti voglio bene. Rispetto le tue decisioni così come tu rispetti le mie, ma ho una richiesta da farti e so che non accetterai facilmente» cominciò questi.
    Perché finivo sempre a sentire discorsi che non era previsto ascoltassi? Ma in quel momento ero ancora Ninomiya Kazunari e non ebbi l’impressione di non dover essere lì, anzi sentivo che quel discorso non mi riguardava affatto e che potevo anche ascoltarlo come avrei ascoltato due persone qualsiasi sulla metro di Tokyo: interessato magari, ma totalmente estraneo.
    «So che hai un segreto, amico mio. So chi c’è in casa tua, non credere che non lo sappia»
    «Sei sicuro di sapere la verità e di non aver solo ascoltato sciocche voci e pettegolezzi?» lo interruppe Morikawa
    «So la verità. Combatte per te, nessuno sa chi sia veramente, ma alcuni dei tuoi samurai hanno ormai accettato che sia dei loro» disse, quasi in tono divertito. «So da dove viene, so chi è».
    Sgranai gli occhi e di botto Ninomiya Kazunari sembrò sciogliersi nell’acqua calda come se fosse stato un cubetto di ghiaccio. Improvvisamente vidi la mia pelle chiara, lavata dello sporco, sulla quale ora spiccavano colorati tutti i lividi e i graffi subiti fino a quel giorno. Quelli non erano i segni di Ninomiya, erano di Morikawa: lui tornò a pilotare i miei sensi e i miei pensieri, rivendicando il controllo del mio corpo e della mia mente. Parlavano di lui, anzi, a quel punto parlavano di me.
    «E qual è la tua richiesta?» domandò Morikawa con voce calma. Se era irritato o diffidente non lo fece intuire dal suo tono, ma non potevo vederlo in faccia. I due uomini si erano immersi in una pozza d’acqua alle mie spalle. In quell’epoca il silenzio era tale che mi ero trovato spesso a dover ricalibrare la mia idea di distanza in base a quanto chiaramente percepivo i suoni: qualcosa che udivo distintamente, poteva arrivare da una distanza superiore a quella ipotizzata, perché vi erano meno ostacoli e meno rumore di fondo a confondere i suoni.
    «Rivela la verità. Fai un annuncio pubblico, smettila di nascondere la sua esistenza»
    «Per quale scopo? Non ha alcun senso, anzi sarebbe più pericoloso. È molto più sicuro se continua a rimanere un segreto» si rifiutò Morikawa e lo ringraziai mentalmente.
    Cosa voleva quello sconosciuto? Perché voleva che i miei ospiti rivelassero la mia presenza? Io non avevo alcun valore sulla scacchiera di guerra che si stava disponendo in quella regione. Ero come una pedina del gioco dell’oca messa tra un cavallo e un alfiere! Contavo come il due di coppe quando la briscola è denari! Non volevo rimanere coinvolto in niente, volevo solo tornare a casa.
    «Per un matrimonio» rispose il compagno di sguazzamenti del signor Morikawa. «Ti ricordi ciò di cui abbiamo parlato stamattina? È un buon partito e noi saremo a legati a doppio filo. I Tokudaiji non potranno ignorare questa unione, così come non potranno opporvisi, perché se lo faranno sarà guerra e a quel punto noi saremmo un gruppo decisamente forte, quindi sono convinto che ci penserebbero due volte prima di attaccarci».
    Avrei voluto uscire dall’acqua e tuffarmi all’improvviso nel loro stagno urlando parole per loro incomprensibili (tipo “treno”, “microonde” o “jeans”) solo per il gusto di terrorizzarli. Quell’uomo non solo voleva tirarmi in mezzo alle loro scaramucce storiche, ma voleva pure usarmi per farmi sposare qualcuno! Sarebbe stato il colmo: un idol raramente si sposa e io invece sarei stato costretto a contrarre un matrimonio. Non per amore poi, ma per convenienza. Convenienza altrui!
    «Devi ammettere che è la soluzione ideale dal tuo punto di vista: hai detto che non vuoi lo scontro e questa è l’unica possibilità per evitare spargimenti di sangue» concluse l’ospite, trionfante. Strinsi le mani a pugno, con rabbia.
    «E’ pericoloso» disse Morikawa dopo qualche secondo di silenzio. «Ma si potrebbe fare» concluse.

    Voilà il quinto capitolo.
    Ammetto che volevo ficcarci un sacco di cose in più, ci ho pensato e ripensato un sacco di notti, ma forse va bene così... forse. Ditemi voi, è noioso come capitolo? O.o
    Cmq mi sto inaspettatamente divertendo a scrivere questo Nino: disperato, ironico, spaventato, avventuriero, forte. I love you Nino!

    Edited by hika86 - 11/10/2013, 21:57
     
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    Cmq mi sto inaspettatamente divertendo a scrivere questo Nino: disperato, ironico, spaventato, avventuriero, forte. I love you Nino!

    buon dirlo forte!!!!
    bene,,,speravo di poter commentare come ME, invece farò sotto mentite spoglie...
    ora leggooooooo:)
     
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